Una scuola da rifare. Riparare i danni delle riforme neoliberiste con la moneta della sovranità

Mentre nei palazzi del potere si parla di regionalizzare in ordine sparso il sistema scolastico, completando dal basso quel lavoro di destrutturazione della scuola della Costituzione che è stato iniziato negli anni ’80 nei circoli europei degli industriali per realizzare la mutazione neoliberista della società italiana ed europea, di cui ho parlato nel numero precedente, nessuno sembra chiedersi che cosa servirebbe davvero alla scuola italiana. Ma per rispondere a questa domanda, occorre partire dall’analisi dei danni prodotti da decenni di mancate riforme o di riforme sbagliate. Prescrivere ricette senza aver fatto una diagnosi non cambierà certamente le cose in meglio.

Come uno tsunami, la stagione buia e distruttiva delle riforme neoliberiste attuate negli ultimi 20 anni ha lasciato dietro di sé danni e macerie. La scuola italiana aveva bisogno di riforme, ma di tutt’altro segno, per realizzare le finalità previste dalla Costituzione. Ora con questi danni e con le relative disfunzioni si deve fare i conti. Possiamo riassumerli così: mancanza di risorse adeguate, degrado dei contenuti dell’insegnamento, assenza di partecipazione democratica al processo riformatore, perdita di dignità e di ruolo sociale dei docenti, destrutturazione delle esperienze didattiche più riuscite realizzate in precedenza (come la scuola elementare a moduli e a tempo pieno e le sperimentazioni nei licei), discontinuità fra ordini di scuola, inadeguato sistema di reclutamento degli insegnanti, subordinazione della scuola al mondo del lavoro (con la riduzione al minimo del fondamentale ruolo emancipante dell’istruzione), insufficienti investimenti negli edifici e nelle strutture scolastiche (palestre, laboratori, biblioteche), dimensioni eccessive degli istituti scolastici, spesso pure privi di dirigente, eccessivo affollamento delle aule, riduzione delle ore di lezione per materie fondamentali come Italiano e Storia, compressione degli spazi di autonomia professionale dei docenti, aumento della dispersione scolastica, diminuzione dei livelli di preparazione in uscita, introduzione assurda dei licei quadriennali e abolizione quasi completa delle bocciature nelle scuole primarie e secondarie inferiori (ulteriori fonti di risparmio), ingresso dei privati nella scuola pubblica, fuga dei cervelli.

Il tutto, in un contesto nazionale che vanta il tristissimo primato di un 70% di adulti analfabeti funzionali, come rilevava il linguista Tullio De Mauro (Storia linguistica dell’Italia repubblicana, Laterza, Bari 2014) che faticano a comprendere un semplice testo e che risultano del tutto impreparati alla comprensione della complessità enorme della società contemporanea.

Preso atto che questa operazione sciagurata e intenzionale si inquadra nel più generale processo di asservimento economico-politico del nostro Paese e di svendita delle nostre ricchezze che ha preso l’avvio dagli anni ’80 e che si continua a chiamare falsamente “crisi”, come se ne esce?

Non esistono certo ricette semplici per problemi così complessi. Il faro, come sempre, è la Costituzione. E la nostra è una Costituzione di ispirazione keynesiana, che mette nell’articolo 1 il diritto al lavoro e la sovranità popolare e nell’articolo 3 il principio dell’uguaglianza sostanziale, da realizzarsi con l’intervento dello Stato. L’articolo 34 ci ricorda che la scuola è aperta a tutti e che tocca allo Stato permettere ai capaci e ai meritevoli di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.

La prima riforma da attuare è perciò investire massicciamente nella scuola. Nessuna ripresa, nessuna crescita è possibile senza partire da qui. Anche se ci è stato raccontato falsamente che non ci sono i soldi e che occorre “razionalizzare” (cioè tagliare) la spesa pubblica, ci sarebbe il modo di ridare subito ossigeno alla scuola pubblica e di restituirle le risorse indispensabili per qualunque cambiamento positivo. Lo ha spiegato l’economista Nino Galloni.

Basterebbe ricorrere alla moneta della sovranità, quella moneta che lo Stato può emettere quando vuole e di cui il Paese ha bisogno come un assetato nel deserto, dato che la famosa crisi non è certo crisi di scarsità di beni, ma di scarsità di denaro circolante. Se invece di realizzare una sorta di gabbia salariale su base regionale, come ipotizza l’accordo stretto dal governo Gentiloni con le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, si concludesse con il comparto scuola un contratto collettivo nazionale finalmente dignitoso, con il quale gli aumenti consistenti di stipendio e i fondi alle scuole fossero pagati in Stato-note o biglietti di Stato validi solo sul territorio nazionale, emessi a costo zero, avremmo una serie di cospicui vantaggi per tutti: avremmo finalmente i mezzi per valorizzare l’autonomia scolastica e migliorare la qualità della scuola; ridaremmo dignità ai docenti ormai impoveriti da 10 anni di blocco stipendiale; faremmo “girare l’economia”, visto che un reddito maggiore si tradurrebbe in maggiore capacità di spesa e infine lo Stato ridurrebbe il debito pubblico, perché la moneta della sovranità è moneta non a debito.

Poiché questa è cosa nota e ciononostante nessun governo la realizza, la domanda iniziale va perciò riformulata: chi non vuole che l’Italia eserciti la sua sovranità monetaria e decide che debba morire di asfissia? perché? e quando aspettiamo a riprendercela, sulla base dell’articolo 1 della Costituzione? La nostra scuola – e con essa il futuro dei nostri figli – è ormai al lumicino. Dobbiamo esserne consapevoli e prenderci le nostre responsabilità.

Articolo pubblicato su Sovranità popolare, n° 2 (2019).

Ma davvero non c’è modo di dare ai docenti un reddito dignitoso?

Umiliare i docenti con uno stipendio da fame, mentre si trovano seduta stante i fondi per il salvataggio delle banche o per l’acquisto degli F35 e si regalano stipendi d’oro a dirigenti pubblici, appare evidentemente frutto di una volontà politica precisa e della volontà di liquidare il prestigio e il ruolo sociale dell’istruzione in questo Paese.

La litania del debito pubblico e dei parametri europei è una finzione che viene dall’aver rinunciato alla sovranità monetaria (il potere più grande dello Stato), aderendo senza discussione ai Trattati europei. Le conseguenze erano implicite nelle premesse, solo che i governanti del tempo si guardarono bene dall’illustrarle al popolo.

Eppure, pur nei limiti strettissimi del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFEU), che obbliga gli Stati membri a comprare euro a debito come una valuta straniera, sono possibili delle vie d’uscita. Lo dicono diversi economisti di area keynesiana, come Nino Galloni, i quali sostengono che lo Stato mantiene titolo ad emettere stato-note, buoni di acquisto o crediti fiscali, che possono essere utiizzati dai dipendenti pubblici per acquistare beni o servizi e dai fornitori di tali beni e servizi per pagare le tasse.

Per entrare più nel dettaglio, l’art. 128 TFEU dice: “La Banca centrale europea ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote in euro all’interno dell’Unione. La Banca centrale europea e le banche centrali nazionali possono emettere banconote. Le banconote emesse dalla Banca centrale europea e dalle banche centrali nazionali costituiscono le uniche banconote aventi corso legale nell’Unione.

2. Gli Stati membri possono coniare monete metalliche in euro con l’approvazione della Banca centrale europea per quanto riguarda il volume del conio”. La Banca d’Italia traduce questa norma così sul sito web: “La moneta fiscale non potrebbe avere corso legale; il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 128) e il Regolamento EC/974/98 (art. 2, 10 e 11) stabiliscono, infatti, che le banconote e le monete metalliche in euro sono le uniche con corso legale nell’unione monetaria“. In realtà, l’art 128 non dice quello che afferma la Banca d’Italia. Non dice che l’unico mezzo legale di pagamento sono le banconote e le monete metalliche in euro (peraltro, queste già prerogativa degli Stati), ma dice che solo le banconote emesse dalla BCE e dalle banche nazionali sono banconote aventi corso legale. Significa (questo è solo semantica del testo) che non esistono altre banconote aventi corso legale nell’UE, non che le banconote siano l’unico mezzo legale di pagamento!

Conferma questa ermeneutica del testo la stessa Banca d’Italia, quando dice che esistono altri mezzi legali di pagamento oltre le banconote e le monete, per esempio la moneta elettronica bancaria (moneta scritturale), che non è fatta né di banconote né di monete: ““Nel portare a termine una transazione pecuniaria famiglie e imprese possono utilizzare oltre alla moneta con corso legale anche mezzi di pagamento privati, definiti e regolati da accordi tra le parti. I depositi bancari a vista, ad esempio, sebbene privi di corso legale costituiscono un mezzo di pagamento molto diffuso poiché il depositante può chiederne la conversione in moneta legale al valore nominale pieno in qualsiasi momento”.

Che cosa definisce allora un mezzo di pagamento come “legale”? Non certo la BCE né le Banche nazionali. Può essere solo lo Stato. In teoria, lo Stato potrebbe accettare come mezzi di pagamento delle imposte anche dei sacchi di grano ed è sempre lo Stato che permette di utilizzare mezzi di pagamento non a corso legale, come la moneta elettronica, che è usata solo per comune accordo fra le parti. Se ci attenessimo alla lettura restrittiva dell’art. 128, la moneta scritturale (generata dalla banche nel momento in cui la prestano) non sarebbe conforme al TFEU. Nella sostanza, la proposta di Galloni non è molto diversa da uno sconto fiscale.

Che questa strada sia percorribile e non influisca sul debito, ma anzi lo riduca, si evince anche da altre considerazioni. Sebbene la Banca d’Italia sostenga che la moneta fiscale o altri strumenti analoghi vada iscritta a debito, secondo che principi contabili internazionali (IFRS 15 e IAS 18) un titolo che dà diritto a uno sconto futuro non deve essere registrato contabilmente all’atto dell’emissione. Semplicemente, andrà a ridurre le entrate nel momento in cui verrà utilizzato.

Gli strumenti adottati dallo Stato per il pagamento delle imposte non sono materia di competenza della BCE. Quando gli eurodeputati Marco Valli (5 Stelle) e Marco Zanni (ex 5 Stelle, oggi forse Lega) hanno chiesto a Mario Draghi in persona se i Certificati di Credito Fiscale costituissero incremento di debito per lo stato, Draghi rispose formalmente (16 novembre 2015): “The definition of the appropriate statistical treatment – as far as government deficit and debt are concerned – of tax credit certificates or any similar instrument does not fall within the ECB’s competence. Therefore, I would kindly refer you to the competent national and/or European authorities.Yours sincerely, Mario Draghi”.

Ripropongo, perciò, il documento pubblicato due settimane fa sull’argomento

IN CONCLUSIONE, se il Governo volesse veramente darci il dovuto, il modo ci sarebbe, è di immediata attuazione, non aumenterebbe il disavanzo pubblico e darebbe una boccata d’ossigeno all’economia. Ma non è che proprio strangolare la scuola, dopo la lenta asfissia degli anni scorsi, sia l’obiettivo politico di questo Governo? Togliere alla democrazia il suo pilastro fondamentale è pericoloso ed eversivo, e noi dobbiamo vigilare e prendere posizione nettamente affinché questo non avvenga.

Per approfondire: http://temi.repubblica.it/micromega-online/moneta-fiscale-il-punto-della-situazione/

https://www.bancaditalia.it/media/views/2017/moneta-fiscale/index.html