Quando il Padre Costituente Piero Calamandrei definiva la scuola pubblica come “organo costituzionale” intendeva dire che essa è un’istituzione dello Stato alla pari con il Parlamento, il Governo o la Magistratura. Nell’architettura della Costituzione italiana del ’48 la scuola assume un ruolo fondamentale: quello di realizzare l’uguaglianza sostanziale fra i cittadini e di formare la classe dirigente, permettendo a tutti di accedere ai gradi più alti dell’istruzione.
Secondo Calamandrei, paragonando lo Stato al corpo umano, il ruolo della scuola è quello degli organi che producono il sangue. L’immagine è chiarissima: la democrazia senza la scuola pubblica è dissanguata. Il sangue si può perdere goccia dopo goccia, ma se non si ricostituisce alla fine si muore.
Le oligarchie sovranazionali che fra gli anni ’70 e ’80 del ‘900 decisero di porre termine all’eccesso di democrazia nel nostro Paese e al suo tumultuoso sviluppo economico e sociale lo avevano compreso benissimo. Con la complicità di una classe politica nostrana collaborazionista e infedele alla Costituzione che a parole difendeva, decisero che ad un colpo di stato violento fosse preferibile un colpo di Stato strisciante. Invece di abolire la Costituzione, bastava ignorarla, modificarla, ritoccarne qua e là i contenuti e svuotarla dall’interno. Un pezzetto alla volta, con paziente metodicità. Così il popolo sovrano non si accorge che la sovranità dell’articolo 1 gli viene sottratta sotto il naso giorno dopo giorno.
La scuola è fastidiosamente l’unica istituzione che mantiene unita la Nazione intorno ai valori fondanti della Costituzione. Il Parlamento già da tempo ha perso centralità e potere, grazie all’abuso dei decreti-legge e alle leggi elettorali cooptative che assegnano la scelta degli eletti ai dirigenti di soggetti privati, quali sono i partiti. Dopo le grandi svendite di aziende e beni pubblici negli anni ’90 e i trattati europei, i Governi formati e disfatti senza passaggio parlamentare o elettorale sono stati sempre più frequenti, mentre quelli che mantengono le promesse elettorali sono estinti da tempo. Siamo ormai assuefatti ad essere eterodiretti. La Magistratura, spesso delegittimata, ha perso una parte di credibilità per i suoi legami con la politica.
Perciò sulla scuola bisognava accanirsi. In vent’anni, ci hanno tolto tutto: fondi, prestigio, qualità, docenti, serietà, contenuti, ore di lezione. In apparenza, nulla è cambiato; nella sostanza, niente è come prima. Come ho spiegato ampiamente altrove, non c’è stato Governo negli ultimi decenni che non abbia dato il suo colpo di piccone in un’unica direzione: smantellare la scuola come organo costituzionale al servizio della democrazia e della mobilità sociale e produrre la scuola-azienda neoliberista, che parla il linguaggio dell’economia e compete sul mercato alla pari con una ditta qualunque o al più come un servizio a domanda, che sopravvive con finanziamenti privati (la Buona Scuola di Renzi).
L’ultimo passaggio era abolire l’unitarietà del sistema scolastico. Un Paese senza un sistema scolastico forte è debole e privo di coesione, specie se storicamente è già afflitto da disuguaglianze e disomogeneità territoriali come il nostro. Ci stanno provando con grande accanimento in questi mesi, con la proposta assurda e incostituzionale dell’autonomia differenziata. Concepita nelle stanze di un Ministero senza alcuna trasparenza fin dal Governo Gentiloni (tanto per dire come sia unanime l’intento), il progetto avanza a singhiozzo con il solito teatrino fra favorevoli (Lega) e contrari (M5S). Ovviamente una modifica così radicale dell’ordinamento dello Stato (ripeto: la scuola pubblica è ORGANO COSTITUZIONALE) richiederebbe prima di tutto una motivazione evidente e poi una procedura complessa, come avviene per le norme di rango costituzionale, che definiscono le regole democratiche, poi un’ampia e onesta discussione pubblica e una pianificazione politica ed economica.
Invece, si discute come se fosse una questione contingente, da sbrigar su due piedi con qualche firmetta fra un Ministro e qualche governatore regionale e ignorando del tutto la contrarietà della stragrande maggioranza dei docenti. Del resto, chi non ricorda che il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia avvenne mediante una lettera privata di Andreatta a Ciampi? Non c’è nemmeno più la finzione che il popolo sovrano conti qualche cosa.
Non si prova nemmeno a spiegare che cosa significhi una scuola regionalizzata secondo le intenzioni fin qui espresse: gabbie salariali sugli stipendi, possibilità per le Regioni di definire i contratti secondo regole autonome e di decidere quanti soldi dare alle scuole private (immagino quanto questo sia allettante per i politici regionali), influenza sui contenuti dell’insegnamento, impossibilità di trasferirsi da una regione all’altra per i docenti. Soprattutto, sarebbe la fine della libertà di insegnamento prevista dalla Costituzione, del prestigio del docente come pubblico ufficiale e rappresentante dello Stato, della scuola delle pari opportunità per tutti i cittadini e dell’uniformità dell’istruzione sul territorio nazionale. Insomma, la fine dell’articolo 3 della Costituzione, il più fastidioso di tutti. Vantaggi: nessuno, almeno per i cittadini e per la democrazia, a parte le generiche promesse sui miracoli dell’autonomia, che ricordano le altrettanto generiche previsioni sui miracoli delle privatizzazioni negli anni ’90, espresse con le stesse parole (Salvini: «Autonomia significa incentivare a migliorare, tagliare, crescere, offrire servizi migliori…»). Ma questo non lo dicono. I mali della scuola si risolvono con altre ricette. A patto che della scuola importi davvero qualcosa alla classe politica.
Articolo pubblicato nel miniblog di Sovranità popolare a luglio 2019