Una scuola da rifare. Riparare i danni delle riforme neoliberiste con la moneta della sovranità

Mentre nei palazzi del potere si parla di regionalizzare in ordine sparso il sistema scolastico, completando dal basso quel lavoro di destrutturazione della scuola della Costituzione che è stato iniziato negli anni ’80 nei circoli europei degli industriali per realizzare la mutazione neoliberista della società italiana ed europea, di cui ho parlato nel numero precedente, nessuno sembra chiedersi che cosa servirebbe davvero alla scuola italiana. Ma per rispondere a questa domanda, occorre partire dall’analisi dei danni prodotti da decenni di mancate riforme o di riforme sbagliate. Prescrivere ricette senza aver fatto una diagnosi non cambierà certamente le cose in meglio.

Come uno tsunami, la stagione buia e distruttiva delle riforme neoliberiste attuate negli ultimi 20 anni ha lasciato dietro di sé danni e macerie. La scuola italiana aveva bisogno di riforme, ma di tutt’altro segno, per realizzare le finalità previste dalla Costituzione. Ora con questi danni e con le relative disfunzioni si deve fare i conti. Possiamo riassumerli così: mancanza di risorse adeguate, degrado dei contenuti dell’insegnamento, assenza di partecipazione democratica al processo riformatore, perdita di dignità e di ruolo sociale dei docenti, destrutturazione delle esperienze didattiche più riuscite realizzate in precedenza (come la scuola elementare a moduli e a tempo pieno e le sperimentazioni nei licei), discontinuità fra ordini di scuola, inadeguato sistema di reclutamento degli insegnanti, subordinazione della scuola al mondo del lavoro (con la riduzione al minimo del fondamentale ruolo emancipante dell’istruzione), insufficienti investimenti negli edifici e nelle strutture scolastiche (palestre, laboratori, biblioteche), dimensioni eccessive degli istituti scolastici, spesso pure privi di dirigente, eccessivo affollamento delle aule, riduzione delle ore di lezione per materie fondamentali come Italiano e Storia, compressione degli spazi di autonomia professionale dei docenti, aumento della dispersione scolastica, diminuzione dei livelli di preparazione in uscita, introduzione assurda dei licei quadriennali e abolizione quasi completa delle bocciature nelle scuole primarie e secondarie inferiori (ulteriori fonti di risparmio), ingresso dei privati nella scuola pubblica, fuga dei cervelli.

Il tutto, in un contesto nazionale che vanta il tristissimo primato di un 70% di adulti analfabeti funzionali, come rilevava il linguista Tullio De Mauro (Storia linguistica dell’Italia repubblicana, Laterza, Bari 2014) che faticano a comprendere un semplice testo e che risultano del tutto impreparati alla comprensione della complessità enorme della società contemporanea.

Preso atto che questa operazione sciagurata e intenzionale si inquadra nel più generale processo di asservimento economico-politico del nostro Paese e di svendita delle nostre ricchezze che ha preso l’avvio dagli anni ’80 e che si continua a chiamare falsamente “crisi”, come se ne esce?

Non esistono certo ricette semplici per problemi così complessi. Il faro, come sempre, è la Costituzione. E la nostra è una Costituzione di ispirazione keynesiana, che mette nell’articolo 1 il diritto al lavoro e la sovranità popolare e nell’articolo 3 il principio dell’uguaglianza sostanziale, da realizzarsi con l’intervento dello Stato. L’articolo 34 ci ricorda che la scuola è aperta a tutti e che tocca allo Stato permettere ai capaci e ai meritevoli di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.

La prima riforma da attuare è perciò investire massicciamente nella scuola. Nessuna ripresa, nessuna crescita è possibile senza partire da qui. Anche se ci è stato raccontato falsamente che non ci sono i soldi e che occorre “razionalizzare” (cioè tagliare) la spesa pubblica, ci sarebbe il modo di ridare subito ossigeno alla scuola pubblica e di restituirle le risorse indispensabili per qualunque cambiamento positivo. Lo ha spiegato l’economista Nino Galloni.

Basterebbe ricorrere alla moneta della sovranità, quella moneta che lo Stato può emettere quando vuole e di cui il Paese ha bisogno come un assetato nel deserto, dato che la famosa crisi non è certo crisi di scarsità di beni, ma di scarsità di denaro circolante. Se invece di realizzare una sorta di gabbia salariale su base regionale, come ipotizza l’accordo stretto dal governo Gentiloni con le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, si concludesse con il comparto scuola un contratto collettivo nazionale finalmente dignitoso, con il quale gli aumenti consistenti di stipendio e i fondi alle scuole fossero pagati in Stato-note o biglietti di Stato validi solo sul territorio nazionale, emessi a costo zero, avremmo una serie di cospicui vantaggi per tutti: avremmo finalmente i mezzi per valorizzare l’autonomia scolastica e migliorare la qualità della scuola; ridaremmo dignità ai docenti ormai impoveriti da 10 anni di blocco stipendiale; faremmo “girare l’economia”, visto che un reddito maggiore si tradurrebbe in maggiore capacità di spesa e infine lo Stato ridurrebbe il debito pubblico, perché la moneta della sovranità è moneta non a debito.

Poiché questa è cosa nota e ciononostante nessun governo la realizza, la domanda iniziale va perciò riformulata: chi non vuole che l’Italia eserciti la sua sovranità monetaria e decide che debba morire di asfissia? perché? e quando aspettiamo a riprendercela, sulla base dell’articolo 1 della Costituzione? La nostra scuola – e con essa il futuro dei nostri figli – è ormai al lumicino. Dobbiamo esserne consapevoli e prenderci le nostre responsabilità.

Articolo pubblicato su Sovranità popolare, n° 2 (2019).

No alla regionalizzazione della scuola: la scuola della Costituzione è unitaria

Se i Padri costituenti leggessero il testo degli accordi fra Stato italiano e Regioni Lombardia, Veneto ed (in misura minore) Emilia Romagna, con i quali oltre un quinto del personale scolastico e tutti i Dirigenti in blocco passerebbero dallo Stato alle Regioni, sono ragionevolmente sicura che si rivolterebbero nella tomba. Il Governo Gentiloni, in perfetta linea con la Buona scuola di Renzi, che era perfettamente allineato con la scuola-azienda delle Ministre Moratti e Gelmini, nel 2018 quatto quatto, secondo lo stile antidemocratico al quale ci siamo ormai assuefatti, anche di fronte alle questioni di maggiore rilevanza pubblica, sottoscriveva questi accordi che pongono fine alla scuola della Repubblica.

Come sempre avviene, la polpetta avvelenata viene cosparsa di zucchero, facendo balenare ai docenti delle regioni interessate, ormai sulla soglia della povertà, con lo stipendio fermo da 10 anni, un modesto aumento di stipendio. Come la Gelmini, che prometteva falsamente di reinvestire nella scuola le risorse tagliate dalla Finanziaria 2008.

Si tratta di una misura politica priva di senso dal punto di vista della qualità del sistema di istruzione e della sua conformità ai principi costituzionali, per cui la prima osservazione da fare è che non se vede il motivo, almeno in apparenza. Intendiamoci: la scuola pubblica così com’è adesso non funziona come dovrebbe, anzi, a considerare la cura da cavallo a cui è stata sottoposta per vent’anni è un miracolo che esista ancora. Ma è tutto da discutere che questa sia la soluzione giusta, mentre è proprio certo che questo non è il metodo giusto. E in democrazia le questioni di metodo riguardano sempre il merito.

Quello che forse non è chiaro ai non addetti ai lavori è però l’insieme delle implicazioni che questa decisione politica si porta dietro. Proviamo ad analizzarle:

1) La Costituzione italiana, agli articoli 3, 33 e 34, individua come scopo fondamentale della scuola pubblica la formazione del cittadino, l’elevazione culturale del Paese, l’emancipazione sociale dei meno abbienti, la formazione di una classe dirigente di livello elevato e la realizzazione delle pari opportunità nell’accesso alle cariche pubbliche. Il padre costituente Piero Calamandrei, le cui parole non hanno mai perso di attualità, diceva che la scuola pubblica è organo costituzionale e fondamento della democrazia.

 “La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell’art. 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti.”

Regionalizzare la scuola mette in discussione l’unitarietà dell’istruzione nel Paese, genera un sistema scolastico differenziato che riproduce, invece di colmare le disuguaglianze culturali e di opportunità, in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione e fa perdere di vista la necessità che lo Stato garantisca un’istruzione di livello elevato sull’intero territorio nazionale. In questo modo, lo Stato potrebbe di fatto sottrarsi all’obbligo previsto dall’articolo 33 Cost. Già ora l’autonomia scolastica consente di adattare il percorso di studi ad esigenze locali, senza bisogno di regionalizzare la scuola. Con questo accordo, la cui costituzionalità è tutta da verificare, si crea surrettiziamente un federalismo fiscale che non c’è nella Carta del ’48 e che viene realizzato a partire dalla discutibile modifica del Titolo V, fatta nel 2001.

2) Gli accordi con le regioni Lombardia e Veneto prevedono che i Dirigenti scolastici siano di nomina regionale e che i docenti, se vogliono usufruire del modesto aumento di stipendio (che potrebbe essere solo temporaneo; in altri comparti, il passaggio alle Regioni ha spesso comportato riduzioni di stipendio), passino all’amministrazione regionale.

Questo vuol dire che le scuole saranno più strettamente controllate dalle maggioranze politiche regionali, cosa che potrebbe limitare la libertà di insegnamento dei docenti, imporre materie non previste dagli ordinamenti nazionali o depotenziarne altre ora previste, disapplicare normative nazionali (per esempio in materia di disabilità, come è già successo nella provincia autonoma di Trento, dove abbiamo già denunciato per esempio l’utilizzo di assistenti alle autonomie – non qualificati per insegnare – al posto dei docenti di sostegno per tagliare i costi) e rendere inutilmente difficile il trasferimento dei docenti da una regione all’altra, vanificando di fatto il valore nazionale dell’abilitazione all’insegnamento e vincolando i docenti al territorio (questa, probabilmente, è una delle ragioni non dichiarate, ma più sentite dalla Lega).

I dirigenti di nomina regionale sono assai preoccupanti, stante la funzione sempre meno didattica e sempre più aziendale che ha assunto nel tempo la funzione dirigenziale. Come verranno selezionati? Da chi prenderanno ordini? A chi risponderanno? Chi li controllerà? Che ruolo avrà il Ministero nel seguirne l’attività? Diventeranno come i dirigenti delle ASL? E come si giustifica la differenza di accesso, di nomina e di carriera fra docenti e dirigenti di regioni diverse, alcuni dipendenti dallo Stato, altri dalle Regioni, per quella che secondo Calamandrei è l’istituzione centrale della Repubblica? E che rapporto si instaurerà fra i docenti ancora alle dipendenze dello Stato e i Dirigenti di nomina regionale? E fra colleghi con diversi rapporti di lavoro? L’art. 151 della Costituzione recita: “Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.

3) Il fatto che l’iniziativa sia partita dal governo Gentiloni non deve far perdere di vista che regionalizzare la scuola è un’ulteriore modalità per depotenziare la scuola di Stato, indebolirne le fondamenta democratiche e subordinarla a scopi diversi da quelli indicati dalla Costituzione del ’48, in piena continuità con le politiche neoliberiste che hanno ispirato le pseudoriforme degli ultimi vent’anni e che sono state dettate dalla Tavola rotonda degli industriali europei, dalla Commissione europea (organo non elettivo) e dalle associazioni private di banche, imprenditori e altri soggetti che con la scuola non c’entrano nulla, come l’Associazione Treellle, molto influente nel nostro Paese (come ha spiegato bene il prof. Pietro Ratto).

Come ho ampiamente spiegato in altri articoli (La perversione neoliberista e la legge della “Buona Scuola” e Ce lo chiede l’Europa? Le politiche scolastiche e la Costituzione neoliberista), in base a queste politiche il fine della scuola ha cessato di essere la cultura, la cittadinanza, la solidarietà, l’unità nazionale ed è diventato la formazione del lavoratore flessibile, non troppo istruito, pronto a rispondere alle esigenze delle aziende. Di pari passo, l’insegnante ha cessato di essere l’intellettuale e il professionista autonomo, che forma al senso critico e costruisce cultura ed è diventato sempre di più il semplice impiegato-esecutore di ordini, tenuto sotto scacco e subordinato ad entità esterne, che ne dirigono l’azione.

In questa direzione vanno le misure previste dalla Buona Scuola, che ha depotenziato i Collegi docenti, imposto anche all’esame di Stato i test INVALSI, introdotto la valutazione degli studenti da parte delle aziende attraverso l’alternanza scuola-lavoro, introdotto i finanziamenti privati nella scuola pubblica. L’accordo con le Regioni Veneto e Lombardia assegna alle Regioni anche la valutazione dei docenti e questo rappresenta un pessimo segnale rispetto all’autonomia della funzione docente, prevista dalla Costituzione (“valutazione”, infatti, può indicare cose assai diverse e non tutte positive).

4) Infine, per rimanere sui principi generali, questa autonomia differenziata, oltre a generare caos normativo e organizzativo, creerà ufficialmente e dichiaratamente scuole di serie A e scuole di serie B, scuole ricche e scuole povere, perché nella superficialità della norma non sono previsti livelli minimi né di prestazione né di tutela giuridica del personale. Ad essere minato sarà quindi lo stesso principio di unità nazionale, cosa tanto più odiosa quanto più lontana dallo spirito della Costituzione e tanto più vicina all’interesse di chi, anche al di fuori del nostro Paese, vuole indebolirne l’integrità e la tenuta democratica.

Per questo motivo, il fronte contrario è assai ampio e comprende (fra gli altri) i sindacati della scuola (Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola Rua, Gilda Unams, Snals Confsal, Anief, Cobas, Unicobas Scuola e Università) e le associazioni, da Associazione Nazionale Scuola per la Repubblica, Aimc, Cidi, Mce, Uciim, Irase, Irsef Irfed, Proteo Fare Sapere, Associazione Docenti Art. 33, Cesp, Associazione Unicorno-L’altra Scuola, Link, Lip scuola, Manifesto dei 500. Anche il mondo studentesco protesta con la Rete degli studenti medi, Rete della conoscenza, Unione degli Studenti, Uds, Udu.

Credo di esprimere un sentire diffuso nel Movimento Roosevelt esprimendo la più completa contrarietà a questa misura devastante per la scuola pubblica e invitando i partiti di Governo a fermarsi in tempo. La scuola ha bisogno di altro: di fondi (tanti, data la gravità dell’impoverimento generale, anche dei docenti), di cura, di una riflessione profonda e di ampio respiro, di lungimiranza, di un vasto dibattito pubblico, di una radicale marcia indietro rispetto alla perversa torsione neoliberista che l’ha sfigurata negli ultimi vent’anni. Noi nel MR abbiamo proposto uno spunto di riflessione, per indicare una direzione possibile, che non è l’autonomia differenziata.

La scuola della Costituzione è la scuola di tutti ed è questa che dobbiamo realizzare. Come scrisse Piero Calamandrei,

“La Costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. E’ la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità di uomo.”

“Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà “.

La scuola spolpata: il bilancio di vent’anni di riforme neoliberiste

Era il lontano 1999. Entrava in vigore la famosa legge n.59, che riformava la Pubblica amministrazione e introduceva anche l’autonomia scolastica, poi realizzata con il D.P.R. n. 275/1999. Vedeva la luce il Preside-Dirigente e le scuole acquisivano personalità giuridica. Possiamo collocare qui il punto di partenza di un percorso riformatore che, attraverso diversi governi, di centro-destra e di centro-sinistra, porta la scuola italiana al punto in cui si trova adesso.

In questi 20 anni, nessuna riforma complessiva è stata realizzata. Solo una serie di interventi slegati fra loro, ma accomunati tutti da un unico fil rouge: impoverire la scuola, togliendole mezzi, ore, risorse umane, qualità; metterla in concorrenza con l’istruzione privata, orientare la didattica all’inserimento nel mondo del lavoro e alle richieste delle aziende, anziché alla formazione del cittadino consapevole; mettere ai margini la funzione emancipante della scuola, prevista dalla Costituzione, svilire il ruolo sociale dei docenti, degradati da professionisti preparati e autonomi, come li intende la Costituzione, a impiegati obbedienti e proletarizzati, anche attraverso una politica di assunzioni per lo meno discutibile e a retribuzioni inadeguate all’importanza del loro ruolo sociale.

Attraverso le riforme Moratti e Gelmini e infine con la Buona Scuola di Renzi siamo passati dalla scuola depositaria di cultura e promotrice di conoscenza e pensiero critico alla scuola smart, luccicante di tecnologie all’avanguardia, di progetti di ogni genere e di metodi di insegnamento accattivanti, ma sempre più priva di contenuti essenziali, priva di mezzi e di locali adeguati, attentamente depurata da ogni sapere capace di favorire la consapevolezza critica, la comprensione del presente, l’attitudine a pensare in modo complesso. Una scuola che istruisce senza educare e che parla il linguaggio dell’economia, anziché quello dei valori civili di solidarietà, partecipazione, democrazia, bene comune, libertà di pensiero.

Non ci si deve consolare con il fatto che questi valori, benché disanimati e residuali, siano ancora presenti nel lavoro quotidiano di un certo numero di docenti. Si tratta di epigoni, ultracinquantenni che hanno assistito impotenti allo sfascio della loro scuola e che, come i militari giapponesi dopo la fine della guerra mondiale, combattono sul loro atollo una guerra ormai persa. Fra pochi anni, la classe docente più anziana d’Europa andrà in pensione in massa e della scuola della Costituzione non resterà nemmeno il ricordo.

La neolingua neoliberista, che ha intossicato le menti di un’intera generazione di studenti e di giovani insegnanti, ci ha abituati a dare per scontate cose che non lo sono affatto e che fanno a pugni con la scuola della Costituzione: che la scuola sia un’azienda, in competizione con altre per accaparrarsi clienti attraverso l’offerta formativa; che le valutazioni siano debiti o crediti, come in banca; che lo studio abbia come fine trovare un posto di lavoro e che quindi debba fornire saperi utili alle aziende (le patetiche “tre ‘i’ della Ministra berlusconiana Letizia Moratti: Inglese, Informatica, Impresa), anziché alla crescita personale; che il Dirigente sia un manager, anziché un educatore più esperto; che la scuola debba orientarsi alle competenze, anziché alle conoscenze, perché il fine è la competizione sul mercato, non il sapere, e l’acquiescenza ai capi, non l’autonomia del pensiero; che il destino delle scuole pubbliche sia trasformarsi in fondazioni private (questo prevede la Buona Scuola), dove lo Stato investe sempre meno e tutto è certificato e standardizzato, per cancellare ogni residuo di autonomia didattica del docente e di capacità della scuola di ridurre le disuguaglianze sociali e territoriali; che nella valutazione finale in uscita dalla scuola primaria (a 10 anni!) venga richiesta una qualità comportamentale che si chiama “Spirito di iniziativa ed imprenditorialità” (Decreto Legislativo 62/2017, art. 2. Valutazione nel primo ciclo).

La scuola neoliberista è una scuola duale: un sistema privato che forma figure di eccellenza e un sistema pubblico che fornisce un’alfabetizzazione di base, ma poco approfondita e a basso costo per lo Stato. Per questo il primo impegno del modello neoliberista della scuola è tagliare i fondi all’istruzione, cosa fatta con spietata e meticolosa determinazione dalla Ministra Gelmini, che nel 2008 amputò il 20% dei fondi all’istruzione da un giorno all’altro.

Ma sbaglieremmo se imputassimo queste politiche scellerate all’incapacità dei nostri governanti. La scuola neoliberista è nata nei circoli degli industriali europei negli anni ’80 che volevano una scuola su misura per loro ed ha trovato progressiva esplicazione nei documenti della Commissione europea che indirizzano le politiche scolastiche dei governi, nonostante l’autonomia ad essi riconosciuta dai Trattati europei (Articolo 165 del TFUE ). Essa è pienamente in linea con il progetto, enucleato dalle oligarchie apolidi che governano l’Europa e la cui natura è dettagliatamente descritta nel volume di Gioele Magaldi, Massoni, di destrutturare la democrazia europea. Indebolire l’istruzione in un Paese con una Carta costituzionale così democratica come quella italiana del ’48 vuol dire indebolire dall’interno la sovranità popolare, di cui si parla all’articolo 1. Un popolo che non ha gli strumenti intellettuali che vengono dal sapere non ha mezzi per esercitare la propria sovranità e i propri diritti ed è pronto per la schiavitù. Questo le politiche neoliberiste della scuola stanno togliendo ai nostri figli. E questa è la deriva che, con l’indignazione che viene dalla conoscenza e lo slancio che deriva dall’amore per il nostro bellissimo Paese, vogliamo e dobbiamo fermare ad ogni costo.

Articolo pubblicato sul n° 1 (2019) della rivista mensile a proprietà diffusa Sovranità popolare.

Senza storia non c’è memoria. Salviamo l’insegnamento della storia

Uno degli effetti più dannosi e inavvertiti della riforma Gelmini, voluta e attuata con spietata determinazione dal secondo governo Berlusconi nel 2008, è il depotenziamento dell’insegnamento della storia in tutte le scuole di ogni ordine e grado.

Fino alla riforma Gelmini la storia, secondo il modello del pedagogista Jerome Bruner, veniva insegnata in modo circolare, riprendendola daccapo e in modo completo in ogni ciclo scolastico (elementari, medie, superiori). La ragione era semplice e sensata: man mano che il bambino cresce, aumenta la sua capacità di afferrare la complessità degli eventi umani e la ripetizione consente di approfondire progressivamente la conoscenza della disciplina, sedimentandola sempre meglio.

Ora invece i bambini italiani incontrano gli eventi storici una sola volta nel loro percorso scolastico di otto anni fra elementari e medie. Se hanno fortuna, nel migliore dei casi hanno a 14 anni nozioni vaghe o elementari dei processi storici; se per sfortuna imbroccano nell’insegnante sbagliato, possono ignorare completamente interi pezzi del passato.

Arrivano così spesso alle superiori con un enorme buco nero alle spalle. Pochi di loro sanno che cosa sia la Rivoluzione francese, la formazione degli Stati assoluti, il Risorgimento o la seconda guerra mondiale. Figuriamoci la storia antica e medioevale.

In più, la riforma ha fatto ulteriori “regali” agli studenti delle superiori: ha tolto un’ora alla disciplina nel biennio, aggiungendole però anche la geografia nell’orario ridotto (si tratta di quell’ibrido sconcertante che si chiama “geostoria”); ha rimodulato la distribuzione del programma di storia in modo che, invece di cominciare dalla metà del Trecento, in terza si cominci da Carlo Magno (cinque secoli prima); ha creato classi di 27-30 alunni. Risultato: il Novecento resta per forza fuori dalle scuole italiane, se non trattato di corsa e solo fino ad una sintesi estrema della seconda guerra mondiale; il numero eccessivo di alunni impedisce sia di verificare oralmente la loro conoscenza in modo adeguato sia di proporre qualunque approfondimento; l’insegnamento di questa fondamentale materia si è ridotto a poche nozioni, prive di ogni inquadramento critico o di ogni valenza educativa. Poche informazioni, da mandare a memoria con fastidio e senza comprenderle, dato anche il progressivo e inesorabile scadimento dei manuali scolastici e dato il buco nero di conoscenze alle spalle.

Perciò non stupisce che gli studenti italiani non scelgano il tema di storia all’esame di Stato. Soltanto che il Ministro, invece di toglierlo dalla prova conclusiva, sancendo così la definitiva marginalità della storia nel curriculum formativo degli studenti italiani, dovrebbe chiedersi perché il tema di storia ha così poco appeal. E se fosse saggio, correrebbe ai ripari.

Un’intera generazione di studenti che non conosce la storia se non in modo superficiale e che ignora tutte le vicende salienti del Novecento è pronto per qualunque regime che si fondi sull’ignoranza della gente. Che lo abbiano fatto apposta può apparire tutt’altro che un’idea stravagante, come ho spiegato in altri articoli. È un pezzo della strategia neoliberista di impoverire e depotenziare la scuola pubblica, fondamentale organo costituzionale, secondo la definizione del Padre costituente Piero Calamandrei.

Per questo, tornare ad un insegnamento vivo, approfondito, critico della storia è fondamentale. Si tratta di una delle principali riflessioni contenute nel Proposte per una scuola democratica, che avevo scritto nel 2017.

Fabbricare il consenso cancellando i fatti. Tre notizie clamorose ignorate dai media

Ci sono almeno quattro modi per mentire: produrre dati falsi, interpretare in modo tendenzioso i dati disponibili, ingigantire fatti irrilevanti o sminuire dati rilevanti e omettere in tutto o in parte informazioni indispensabili a formarsi una visione attendibile dei fatti. Nella stampa italiana (e certo non solo in quella, come spiegò magistralmente già nel 1988 Noam Chomsky, con il libro Manufacturing Consent, ma da noi con esiti drammatici) non è raro imbattersi in tutti e quattro, e su molte materie. Diventa difficile formarsi un’opinione ragionata, quando sono truccati i dati di fatto.

Da cane da guardia della democrazia, la stampa nazionale e la televisione appaiono spesso trasformate in cani da guardia del potere. Che il potere (politico, economico, finanziario, militare) da sempre sfrutti a proprio vantaggio il controllo dell’informazione e il conformismo della gente è cosa risaputa e perfino teorizzata dai regimi totalitari, come fece Joseph Goebbels nella Germania nazista; per questo in democrazia hanno tanta rilevanza l’autonomia e il pluralismo nell’informazione.

Se i giornalisti sono minacciati, economicamente deboli, ricattati, influenzati o finanziati da portatori di interessi privati (partiti, organizzazioni criminali, banche, aziende, potenze straniere o individui potenti) viene lesa non solo la libertà di stampa, ma anche il diritto essenziale dei cittadini ad un’informazione seria e attendibile e di conseguenza viene minacciata la democrazia o vengono calpestati dei diritti. E se la stampa appare inattendibile e asservita, il discredito che ricade sui giornalisti rende ancora più velenoso e irrespirabile il clima sociale. Un giornalista tutto sommato onesto, ma sotto pressione, se non si sente un eroe, può preferire una sicura reticenza ad una pericolosa verità e scegliere l’autocensura come compromesso accettabile per tutelare la carriera, la vita familiare o la propria incolumità personale. Risulta difficile dire quindi di volta in volta se le menzogne dell’informazione “ufficiale” siano deliberate o meno, ma restano menzogne (o fake news, come si usa adesso) pericolose per la democrazia, ed è di questo che intendo parlare qui.

Qualche mese fa, mettevamo in luce come, nel dibattito pubblico sulla legge Lorenzin, che imponeva di punto in bianco un obbligo vaccinale molto rigido per un numero elevato di malattie, la stampa italiana avesse mostrato una preoccupante tendenza a rinunciare al proprio ruolo critico di fronte a palesi falsità enunciate e ripetute pubblicamente dal Ministro della Salute sui giornali e in TV a proposito dell’elevato numero di bambini morti per morbillo in Inghilterra nel 2013 (270 secondo il Ministro; pari a zero, in realtà), sotto lo sguardo compiaciuto delle autorità sanitarie. Lasciar passare una menzogna così grave nella sostanza (si trattava delle massime autorità sanitarie nazionali!) e nei suoi effetti persuasivi su una questione così delicata per la tutela dei cittadini più indifesi rimarrà nella storia nazionale come un atto vergognoso e imperdonabile, un vero e proprio tradimento del proprio ruolo istituzionale a difesa della verità.

Tralasciando altre gravi falsificazioni sull’argomento e il clima intimidatorio e diffamatorio messo in piedi dalla stampa cartacea, radiofonica e televisiva mainstream verso qualunque voce di dissenso, sebbene proveniente dallo stesso mondo scientifico (compresi virologi di fama mondiale, premi Nobel e scienziati blasonatissimi), osservammo, a febbraio 2018, come fosse stata passata sotto universale ed unanime silenzio dei media la conclusione sconvolgente dei lavori della IV Commissione Difesa (che aveva coinvolto un certo numero di esperti medici e non solo) sul ruolo determinante della profilassi vaccinale nelle gravi patologie che avevano colpito oltre 7000 militari italiani in servizio. Indipendentemente dalla conclusività di quel lungo lavoro di indagine, che poteva e doveva essere discusso in sede scientifica, il fatto stesso di aver tenuto all’oscuro i cittadini dei contenuti più scottanti di un fondamentale atto parlamentare appare una manipolazione della verità di dimensione inaudita. L’omissione è una menzogna non meno grave della produzione di dati falsi, perché i suoi effetti sono identici, ovvero impedire la formazione di un’opinione fondata e la tutela dei propri diritti.

Ma nelle ultime settimane siamo giunti all’apoteosi della menzogna. La sociologa Elizabeth Noelle-Neumann chiamava “spirale del silenzio” il grave fenomeno per il quale i media, rappresentando come unica l’opinione prevalente o più gradita al potere, condannano al silenzio le opinioni dissenzienti, orientando così la gente a ritenerle inesistenti o poco diffuse, anche quando sono maggioritarie o assai rilevanti, e spingendola a conformarsi all’opinione dominante. La questione dell’obbligo vaccinale ne è un esempio lampante. Al di là delle opinioni personali sulla bontà e sulla sicurezza dei vaccini, il silenziamento o la demonizzazione di un punto di vista, specie se critico, nel pubblico dibattito si configura come una manipolazione inaccettabile del consenso. E il consenso si manipola quando la verità non è presentabile. Succede così che tre notizie clamorose e di grandissima rilevanza per milioni di genitori italiani possano passare sotto quasi unanime silenzio. Parliamo di tre fatti, non di tre opinioni, in crescendo di gravità.

La prima viene dalla Puglia. Virtuosamente, l’Osservatorio Epidemiologico Regionale, pungolato dalle critiche arrivate attraverso una trasmissione televisiva (non tutta l’informazione è da buttare), ha deciso di avviare un progetto di vaccinovigilanza attiva per 12 mesi nel 2017, con il quale un certo numero di bambini vaccinati contro morbillo, parotite, rosolia e varicella (MPRV) è stato seguito per un anno per verificare, con la collaborazione dei genitori, tutti gli eventuali effetti avversi. La vigilanza attiva sugli effetti avversi, tutt’altro che diffusa in Italia, è una delle principali richieste fatte allo Stato dai genitori preoccupati. Si sa infatti che solo la minima parte degli effetti avversi viene segnalata spontaneamente alle autorità, tanto più da quando i medici che osano fare qualunque obiezione vengono sanzionati dalla pubblica riprovazione dei colleghi e minacciati di espulsione dall’Ordine.

Leggendo l’introduzione del report, dal titolo Sorveglianza degli eventi avversi a vaccino in Puglia. Report 2013-2017, si viene a sapere che i vaccini sono sicuri e che si può stare tranquilli; si può poi leggere su Quotidiano Sanità in un’intervista ad un membro del gruppo di lavoro, Silvio Tafuri, che sono “solo 56 gli eventi avversi gravi correlabili alle vaccinazioni a fronte di quasi 900 eventi segnalati e analizzati dagli esperti regionali”. Il titolo dell’articolo è solo relativamente rassicurante: Il primo report sugli eventi avversi da vaccino: 56 quelli gravi su quasi 7 milioni di vaccinazioni effettuate.

Se però si leggono (ma chi lo fa?) i dati presentati in fondo al report (pp. 26 e seguenti), sui quali peraltro non vengono tratte le dovute conclusioni, si osserva uno scenario completamente diverso. Mi limito perciò a fare copia e incolla:

Nello studio sono stati coinvolti 12 Centri vaccinali che hanno coperto tutte le Aziende Sanitarie della Regione Puglia. Nei Centri vaccinali aderenti, complessivamente nel periodo dello studio considerato (12 mesi) sono state somministrate 3.936 prime dosi di vaccino anti-MPRV e sono stati reclutati 1.672 soggetti (42,5% dei soggetti che hanno ricevuto la prima dose di vaccino MPRV). […]

Nell’ambito del progetto di sorveglianza attiva sono stati segnalati 656 eventi avversi (reporting rate = 392,34×1.000 dosi) mentre le attività di sorveglianza passiva comprendono 112 segnalazioni (reporting rate = 0,42×1.000 dosi).

Mi fermo. Calcolatrice alla mano, verifico di aver capito bene. Su 1672 soggetti inclusi nel progetto di vigilanza attiva, sono 656 le segnalazioni di eventi avversi, esattamente il 39,23% del totale! Ma non ci avevano detto a reti unificate che erano uno su un milione? O addirittura, come aveva affermato Alberto Villani, Presidente dell’Associazione Italiana di Pediatria, 3 o 4 negli ultimi vent’anni? Ma qui significa 392.300 su un milione! Per di più, nei quattro anni precedenti, con la sorveglianza passiva, risultavano solo lo 0,04%, circa mille volte di meno (ma sempre molto più di uno su un milione: 420, per l’esattezza)! Allora era fondata la preoccupazione dei genitori somari e ignoranti! E se la vaccinovigilanza attiva venisse condotta in tutte le ASL d’Italia, quanti casi verrebbero fuori? E su tutti i vaccini, anziché sul solo MPRV? E se si prolungasse oltre i 12 mesi di questo studio? E se si studiassero gli effetti a lungo termine?

Proseguo e leggo:

Nel periodo in esame, 68/656 (10,4%) eventi segnalati nell’ambito della sorveglianza attiva sono stati classificati come gravi (reporting rate = 40,67×1.000 dosi); tale proporzione è pari a 32/112 (28,6%) eventi nell’ambito della sorveglianza passiva (reporting rate = 0,12×1.000 dosi).

Mi fermo di nuovo. Su 656 segnalazioni di effetti avversi, 68 (il 10,4%) sono classificate come gravi. Significa che per il 4,07% (40,67 su mille, 40.670 su un milione) dei bambini che ha ricevuto il vaccino MPRV è stato segnalato un effetto avverso grave. Ma che cosa vuol dire “grave”? Ce lo dice lo stesso report a pagina 19:

Un evento avverso a vaccino o farmaco viene classificato come grave ove abbia determinato:

- decesso
- pericolo di vita
- invalidità grave o permanente
- anomalie congenite/deficit del neonato
- ospedalizzazione o prolungamento dell'ospedalizzazione
- altra condizione clinicamente rilevante

Ma sono tantissimi! Quanti allora in tutta Italia? Appare chiaro che con la vigilanza passiva si scoprono sono una minima parte dei casi gravi, ma gli altri (molti di più) passano sotto silenzio, forse perché i danni non vengono correlati al vaccino né dai pediatri né dai genitori. Era un problema già rilevato negli anni ’90 da un esperto della FDA statunitense. Ma quante segnalazioni vengono confermate con criteri validati dall’OMS? Insomma, quanti sono i casi documentati di effetti avversi in Puglia, per i quali si è stabilita la relazione causale con il vaccino? Il 73,1% del totale delle segnalazioni, ovvero 49 su 67 con la vigilanza attiva e il 36,4%, ovvero 8 su 22 per quella passiva.

E veniamo al dato fuorviante e tendenzioso fornito dal titolo dell’intervista. I casi accertati di effetti avversi gravi sono 57 (non 56, ovvero 49 con la vigilanza attiva e 8 con quella passiva, ma vabbè), ma il denominatore non sono i 7 milioni di bambini vaccinati in Puglia (col che saremmo comunque a ben più di uno su un milione), bensì solo i bambini vaccinati con MPRV, solo in 12 mesi, solo quelli partecipanti allo studio (1672, si è detto), più un certo numero di bambini sottoposti a vigilanza passiva negli anni 2013-2017. Una presentazione sorprendente dei dati, perché viene taciuto il dato assai allarmante del 4% dei casi con effetti gravi (il 2,93% accertati), che, se confermato da altri studi analoghi su campioni più ampi, darebbe 40.670 casi (29.306 accertati) su un milione per la prima dose di un solo vaccino! Se fosse stato riportato il dato corretto, quanto il titolo dell’articolo avrebbe rassicurato i genitori? Proviamo a leggerlo: Il primo report sugli eventi avversi da vaccino: 49 quelli gravi accertati su 1672 vaccinazioni effettuate in un anno per la prima dose dell’MPRV (2,93% , 29.306 su un milione).

Si scopre poi che nel 91,2% delle segnalazioni gli effetti avversi sono correlati alla somministrazione di due vaccini virali insieme, l’MPRV e l’HAV (antiepatite A) e che la stragrande maggioranza dei casi (81,8% del totale) riguarda bambini di età inferiore ai due anni. Ohibò, e se avesse avuto ragione quel pazzo di Andrew Wakefield a suggerire di non vaccinare contro morbillo, parotite e rosolia prima dei due anni, per ridurre gli effetti avversi? E se non fossero poi così dementi i genitori a chiedere che non vengano iniettati troppi vaccini contemporaneamente, specie antivirali?

Si può leggere qui:

Per quanto concerne la sorveglianza attiva, 6/68 (8,8%) segnalazioni sono relative a somministrazione di singolo vaccino anti-MPRV e 62/68 (91,2%) a co-somministrazione di due vaccini (MPRV + HAV in tutti i casi). Per 67/68 (98,5%) segnalazioni di evento avverso grave pervenute nell’ambito della sorveglianza attiva è stato possibile effettuare il causality assessment, mentre questa operazione è stata effettuata per 22/32 (68,8%) segnalazioni pervenute nella sorveglianza passiva.

Nel periodo in esame, 49/67 (73,1%) eventi avversi gravi segnalati nell’ambito della sorveglianza attiva sono stati classificati come correlabili a vaccino anti-MPRV (reporting rate = 29,31×1.000 dosi); per la sorveglianza passiva, sono correlabili 8/22 (36,4%) eventi gravi segnalati (reporting rate = 0,03×1.000 dosi). […]

Delle segnalazioni di evento avverso grave correlabile alla vaccinazione, 30/56 (53,6%) sono relative a vaccinati di genere femminile. Per 55/56 (98,2%) è nota l’età al momento della vaccinazione, con 45/55 (81,8%) casi in età <2 anni, 7/55 (12,7%) tra 2 e 11 anni e 3/55 (5,5%) tra 18 e 64 anni.

Qualcuno, nel report della regione Puglia, commenta questi sconvolgenti risultati? No, assolutamente. Va tutto bene, madama la marchesa. Nessun commento, nessuna conclusione. Quasi il 40% dei bambini vaccinati con MPRV denuncia un effetto avverso, in 4 casi su 5 sotto i due anni di età; il 10,4% dei casi denunciati è grave e il 73% di essi accertato e la cosa non fa notizia? Certo, si dice che l’83,7% dei casi di effetti gravi risulta guarito dopo un anno, ma un certo numero di bambini (circa uno su cinque) non lo è affatto. Quanti sono i danneggiati gravi che non guariscono moltiplicati per tutte le dosi di tutti i vaccini di tutti i bambini italiani? Sono di più o di meno dei danneggiati dalle malattie per le quali si vaccina? Come si fa a dire che questo vaccino è assolutamente sicuro a fronte di questi dati? Non si sente la necessità di approfondire, visto che si tratta di un vaccino obbligatorio e che la Corte Costituzionale ha specificato che si può obbligare solo se il danno è minimo e transitorio? E i giornalisti, lo hanno letto il report? Lo hanno diffuso e commentato? Hanno notato la discrepanza fra il testo introduttivo, tanto rassicurante, e i dati effettivi, pubblicati in bella vista, ma occultati ai lettori distratti da un silenzio tombale sul loro significato? E le autorità sanitarie? Hanno commentato? Assolutamente nessuno lo ha fatto. Lo ha scoperto un gruppo di genitori del MOIGE, auditi dalla Commissione Sanità in Senato il 20 novembre scorso. Poi, come sempre, è calato il silenzio, a parte il rimbalzo su Internet.

E veniamo alla seconda notizia, ancora più sconvolgente. Il Corvelva, associazione veneta di genitori contrari all’obbligo vaccinale, dopo aver letto la relazione della IV Commissione Difesa, in cui si parla di gravi impurità nei vaccini, commissiona a diversi laboratori certificati alcune analisi sulla composizione dei vaccini attualmente usati come obbligatori, ricevendo un piccolo contributo (10.000 euro) anche dall’Ordine dei Biologi. Ne parla pure la rivista Nature e un solo giornale italiano, Il Tempo, vi dedica ampio spazio. Gli altri tutti zitti. Si leva subito il coro unanime delle Vestali della Scienza, che, senza aver verificato, si stracciano le vesti gridando alla bufala e all’ignoranza dei temerari esperti dei laboratori coinvolti. Repubblica parla addirittura di 130 scienziati, pezzi grossi delle Università italiane, dell’ISS, e di ben 15 istituzioni straniere, senza però elencarne i nomi, a parte 3 o 4. Il tono, come sempre, è sprezzante e mira a screditare i dati di Corvelva, ricorrendo alla solita fallacia ad personam (poiché sono dei no-vax, le loro informazioni sono “carenti e fallate” a prescindere). Risponde alle critiche una degli autori delle analisi, la dott.sa Loretta Bolgan, dottorata in Scienze farmaceutiche ad Harvard e Vincenzo D’Anna, il Presidente dell’ordine dei Biologi, ne difende il lavoro.

Ma perché tanta sdegnosa riprovazione? Perché dal laboratorio vengono fuori risultati agghiaccianti, benché del tutto provvisori, e soprattutto perché la notizia è trapelata, rompendo la spirale del silenzio. A luglio, l’analisi di due campioni di vaccino MPRV (lo stesso della Puglia) mostra almeno quattro inaccettabili non conformità: una quantità insufficiente di antigene del virus della rosolia (quindi l’inefficacia assai probabile del vaccino per questa malattia), una quantità impressionante di materiale genomico di diversa provenienza, con frammenti e intere sequenze di DNA umano (da cellule fetali necessarie per la coltivazione dei virus, una linea cellulare usata da 50 anni) e non umano (virus e retrovirus nocivi, batteri, vermi), un numero elevato (115) di sostanze chimiche estranee, fra le quali farmaci, antibiotici, diserbanti, erbicidi, acaricidi e metaboliti della morfina, benché singolarmente in minime quantità, e infine una mancanza di corrispondenza fra le varietà virali dichiarate e quelle realmente presenti, con l’eccezione del virus del morbillo, cosa che potrebbe pregiudicare sia l’efficacia sia la sicurezza dei composti. Inoltre, palesi differenze fra i lotti e una quantità molto elevata di composti non identificabili. Le analisi di altri vaccini presenta risultati ancora più sconcertanti. L’intera documentazione (ancora molto parziale) si può trovare qui.

Ma leggiamo alcuni passi della relazione sulle analisi metagenomiche di secondo livello, che sostanzialmente confermano quelle di primo livello:

Il Priorix Tetra è il vaccino con più alta quantità di DNA estraneo contaminante (DNA totale estratto da 3.7 μg a 1.7 μg, di cui il 88% è umano, quindi proveniente dalle cellule MRC-5, e il restante 12% proviene da microorganismi avventizi, quali virus, batteri, vermi).

Il DNA genomico umano è ad alto peso molecolare sopra i 60.000 bp. e la totale copertura in sequenza dell’intero genoma umano di riferimento (HG-19) dimostra che è l’intero genoma delle cellule fetali utilizzate per la coltura dei virus vaccinici ad essere presente e non solo porzioni di esso .

Dalla risposta dell’EMA al nostro quesito sui limiti imposti ai residui di materiale genetico estraneo nei vaccini risulta che di fatto non ci sono dei limiti per ciascun vaccino ma solo per alcuni, riportati nelle monografie del prodotto; il limite massimo previsto varia da 10 pg a 10 ng , sulla base del calcolo teorico della possibilità da parte del DNA genomico estraneo di causare mutazioni oncogeniche.

È da notare che le autorità regolatorie non richiedono che queste contaminazioni vengono testate nel prodotto finale, ma solo nella fase di preparazione iniziale, e che per i vaccini a virus attenuati la purificazione di queste contaminazioni sono un passaggio critico. L’EMA non ha fornito studi specifici sulla pericolosità del DNA residuo fetale, che consentano di valutare il rischio per la salute umana di queste contaminazioni, perciò tale limite rimane ad oggi arbitrario.

Ne segue che per questi due lotti di Priorix Tetra risulta circa 140 volte superiore al limite massimo di 10 ng e ben 140.000 volte superiore al limite minimo di 10 pg. […]

1. Il genoma del virus del morbillo contenuto nel vaccino è identico alla sequenza del ceppo Edmonston Schwartz depositato nelle banche dati avente numero di accessione AF266291. Il numero di varianti rilevate è stato infatti pari a 0;

2. Il genoma del virus della parotite contenuto nel vaccino ha mostrato una singola mutazione rispetto al ceppo virale Jeryl-Lynn presente nelle banche dati pubbliche con il numero di accessione AF338106.1;

3. Il genoma del virus della rosolia non è stato rilevato;

4. Il genoma del virus della varicella contenuto nel vaccino ha mostrato quattro mutazioni rispetto al Human herpesvirus 3 presente nelle banche dati pubbliche con il numero di accessione AB097932.1.

La sequenza degli antigeni/genomi virali è un dato strettamente confidenziale che non viene fornito dall’EMA. Non sono disponibili linee guida che regolamentano l’analisi delle mutazioni genetiche e lo studio degli effetti sulla salute umana.

L’elevata frequenza di mutazioni genetiche nei virus e nei batteri, nonché nel DNA delle linee cellulari in coltura, è un problema di grande rilevanza per quanto concerne la sicurezza, in quanto non è noto come le varianti eventualmente riscontrate possano modificare la capacità infettiva e la stimolazione del sistema immunitario verso reazioni autoimmuni.

È certamente possibile che le analisi siano incomplete, come peraltro dichiarato dal Corvelva, che vadano integrate, approfondite o migliorate, come rilevato dagli esperti che hanno criticato la metodologia di analisi o le conclusioni, ma il punto non sta nella correttezza delle analisi, quanto nell’assenza di risposta delle autorità di vigilanza sui vaccini, Ministero, AIFA e ISS in testa, che avrebbero prima di tutto dovuto rispondere con un minimo di preoccupazione, anziché con il silenzio alle missive del Corvelva che presentavano i primi risultati provvisori (si tratterebbe infatti come minimo di una frode e di una minaccia alla salute pubblica, se le cose stessero così; materia penale, insomma, alla quale le grandi multinazionali farmaceutiche non sono certo nuove) e avrebbero dovuto presentare subito al pubblico i risultati delle analisi effettuate nei propri laboratori, a smentita di quanto divulgato dall’associazione veneta, e predisporre subito delle controanalisi degli stessi lotti vaccinali. Ma ci sono queste analisi, effettuate da istituzioni pubbliche e non solo dai produttori di vaccini? Qualcuno le vuole mostrare e mettere così a tacere subito il Corvelva? C’è qualcuno che si preoccupi della salute dei bambini e che controlli i singoli lotti di prodotto finito in un laboratorio pubblico? Questo il Corvelva vuole sapere, e questo vorrebbero sapere molti cittadini, se la stampa facesse il suo dovere. Invece di affermare indignati che le analisi non sono valide, senza nemmeno averle verificate, occorre mostrare che non lo sono, presentando quelle valide. E c’è una bella differenza. Non si risponde chiedendo un atto di fiducia, quando le accuse sono così gravi; si danno prove scientifiche, ovvero i report delle analisi effettuate nei laboratori pubblici. La ragione di questa richiesta è semplice, e ci porta alla terza gravissima questione sulla quale la stampa tace.

Negli Stati Uniti, nel 1986, sotto la presidenza Reagan, venne approvato il Vaccine Injury Compensation Act, spesso ricordato con la sigla VICA. La legge era richiesta a gran voce dalle aziende produttrici di vaccini, a causa del sempre più elevato numero di cause legali loro intentate dai danneggiati da vaccino (tanto numerosi da costituire una minaccia seria per i profitti dei produttori). Così la legge stabilì che le aziende farmaceutiche non dovessero rispondere legalmente per i danni da vaccino. Il Presidente e il Congresso erano consapevoli del fatto che questo anomalo privilegio avrebbe potuto costituire un pericolo per la salute delle persone, disincentivando di fatto le aziende dal garantire la qualità e la sicurezza dei vaccini; per questo, sulla base del principio checks and balances imposero dei vincoli e dei controlli, e stabilirono che lo Health and Human Services Department (il Ministero federale per la salute) costituisse una task force insieme al NIH (National Institute of Health) per garantire due obiettivi fondamentali: favorire la produzione di vaccini sempre migliori e ridurre al minimo i danni da vaccino. Il compito della task force era

“make or insure improvements in and otherwise use the authority of the secretary with respect to the licensing, manufacturing, processing, testing, labeling, warning, use instructions, distribution, storage, administration, field surveillance, adverse reaction reporting, and recall of reactegenetic lots , or batches of vaccines, or research on vaccines in order to reduce the risk of adverse reactions to vaccines.”

Doveva, insomma, controllare, come organo pubblico, che ogni singolo preparato vaccinale fosse sicuro. La legge stabilì perciò che ogni due anni l’HHS dovesse consegnare al Congresso il report completo di tutte le azioni di sorveglianza e controllo effettuate nei due anni precedenti. Si trattava di un importante strumento di tutela della salute pubblica, uno degli atti più importanti di un Dipartimento federale per la Salute.

“Within two years after this signing declaration on December 22, 1987, and periodically thereafter, the Secretary shall transmit to the Committee on Energy and Commerce of the House of Representatives, and the Committee on Labor and Human Resources of the United States Senate, a report describing the actions taken pursuant to section A during the preceding two year period.”

Robert Kennedy Jr, rampollo della nota famiglia e affermato avvocato, critico nei confronti delle politiche vaccinali, decide di fare richiesta all’HHS di questi documenti, dal 1987 ad oggi, avvalendosi della legge sulla libertà di informazione, che stabilisce 20 giorni come termine per la risposta (Freedom of Information Act o FOIA). Non avendo avuto alcuna risposta dopo un anno, nonostante numerosi solleciti, Robert Kennedy e la sua associazione decidono di rivolgersi al giudice. E finalmente la risposta arriva: non esiste alcun report sulla sicurezza dei vaccini, dal 1987 ad oggi. Punto. 

“The department’s search for records did not locate any records responsive to your request. The Department of Health and Human Services (HHS), Immediate Office of the Secretary (IOS) conducted a thorough search of its document tracking system and the Department also conducted a comprehensive review of all relevant indexes of HHS Secretarial correspondence records maintained at federal record centers that remain in the custody of HHS. These searches did not locate records responsive to your request, or indicate that records responsive to your request and in the custody of HHS are located at federal records center.”

[qui il testo in Italiano, con il commento di Robert Kennedy Jr]

E allora chi li fa questi controlli sulla sicurezza? Nessuno, risponde l’avvocato Kennedy. Da 32 anni nessuno controlla in modo indipendente dalle aziende la sicurezza dei preparati vaccinali, mentre per tutti gli altri farmaci i controlli sono molto stretti e vincolanti. E poiché negli USA le segnalazioni di danni da vaccino furono 59.711 solo nel 2016, di cui 432 morti, se si prende per buona la parola dell’HHS che sono l’1% di quelli reali, per via dell’assenza di una vaccinovigilanza attiva, questo significa che potrebbero essere 5,9 milioni i danneggiati da vaccino in un solo anno; 43.200 i morti, dice Robert Kennedy.

Potrebbe interessare ai cittadini italiani una notizia di questo genere? Perché allora la stampa nostrana la passa sotto silenzio, invece di approfondirla e magari smentirla con altri dati, se ci sono? Che quanto dice Robert Kennedy sia vero o falso tocca alla stampa verificarlo. Ma non può ignorare un fatto così dirompente. Come mai l’AIFA non ha presentato il giorno dopo l’articolo su Il Tempo i report di sicurezza a sua disposizione su quei lotti per rassicurare l’opinione pubblica? Sarebbe così semplice smentire il Corvelva… E perché Repubblica non sollecita la pubblicazione di questi documenti, anziché screditare le analisi del Corvelva? Tocca allo Stato e all’AIFA e all’ISS che ne sono espressione garantire la sicurezza dei vaccini e produrre prove dei controlli effettuati, non ai cittadini fornire prove della loro eventuale dannosità o della correttezza delle proprie analisi. Non è questo il loro compito istituzionale? Si tratta di un trattamento sanitario obbligatorio, per di più pagato con denaro dei contribuenti, e le aziende produttrici sono private, per di più pluricondannate in passato! Con il precedente americano, non è che si possa stare troppo tranquilli; inoltre, detto per inciso, nemmeno da noi le aziende rispondono dei danni da vaccino e a pagare siamo noi cittadini (con gli esigui fondi appositamente stanziati dallo Stato), per i pochi danneggiati che riescono a spuntarla contro l’Avvocatura dello Stato e che possono permettersi il costo di una causa spesso pluridecennale (pochi danneggiati riconosciuti dai tribunali rispetto al totale, ma molti in cifra assoluta).

Invece di fornire dati, questa è stata la risposta pubblica dell’AIFA, commentata dal giornalista Franco Bechis, autore dell’articolo de Il Tempo.

Le autorità preposte effettuano controlli durante tutto il ciclo produttivo del vaccino. Inoltre, prima della distribuzione sul mercato, ogni singolo lotto è sottoposto a un ulteriore doppio controllo effettuato, in modo indipendente, sia dall’azienda produttrice che da una rete internazionale di laboratori accreditati, a loro volta controllati da altri enti (in Italia l’Istituto Superiore di Sanità). Solo i lotti che superano positivamente tali controlli possono essere commercializzati.

e questa la risposta di Vincenzo D’Anna:

“Nel confermare la bontà dell’iniziativa scientifica sostenuta dall’ONB – aggiunge il presidente dei Biologi – formalmente e pubblicamente invito uno o più sottoscrittori del documento di censura ad esibire, ad horas, le analisi sui vaccini in uso così come prescritto dalla norma riguardante le autorizzazioni per l’immissione in commercio dei farmaci. Analisi che ovviamente non siano state esibite dagli stessi produttori o da laboratori accreditati finanziati da quegli stessi produttori”. Insomma, precisa il senatore “analisi che siano eseguite da quelle istituzioni pubbliche preposte al controllo di qualità ed alla farmacovigilanza prevista dalla legge”.

Questa invece la risposta di Loretta Bolgan all’AIFA:

Quanto al fatto che l’EMA abbia risposto a luglio 2018 faccio presente che l’EMA [l’Agenzia europea del farmaco] ha sottolineato che è di competenza dell’AIFA rispondere alle nostre domande per quanto riguarda il Priorix tetra perchè di registrazione nazionale. E l’AIFA risponde non con i dati analitici fatti sui lotti e studi di sicurezza alla mano (visto che come da loro asserito i controlli sono già stati effettuati dai produttori, dai laboratori accreditati, pagati dai produttori, e dall’ISS, spero non pagati anche questi dai produttori), ma dicendo che l’EMA ci ha già risposto e che non prenderanno in considerazione i nostri dati finchè non pubblicheremo.

Questo infine il carteggio fra Corvelva e ISS (Istituto Superiore di Sanità).

Come ho sempre sostenuto nei miei precedenti articoli sull’obbligo vaccinale, qui non siamo di fronte ad una questione scientifica, ma ad una questione politica, etico-giuridica e di libertà dell’informazione; alla fine, forse anche penale (ancora un volta, come spesso in passato), se le analisi di Corvelva avessero ragione. Non si può obbligare nessuno ad un trattamento medico non necessario alla sopravvivenza, né per il proprio né per l’altrui vantaggio, perché il corpo è inviolabile e superare la barriera con i vaccini apre ad altre e più pericolose violazioni; né si può limitare l’esercizio di un diritto civile come il diritto all’istruzione per costringere a compiere un’azione contraria alla propria volontà e di dubbia sicurezza per la propria incolumità. Nemmeno un solo danno grave e permanente da vaccino è eticamente giustificabile se la vaccinazione è obbligatoria, e il report della Regione Puglia apre scenari davvero inquietanti al proposito. In ogni caso, non è una decisione medica stabilire la soglia del sacrificio accettabile.

Ma che la stampa continui a fare propaganda, anziché informazione, e a nascondere informazioni determinanti per la pubblica opinione è insopportabile e pericoloso. Non si tratta qui di diffondere bufale, come si dice ovunque sui media nazionali con beffarda e falsa indignazione, ma di riferire ai cittadini informazioni fondamentali e dovute che provengono da atti pubblici (relazione della IV Commissione parlamentare della Difesa, report della Regione Puglia, report di sicurezza di AIFA, risposta sconvolgente del HHS statunitense) o rendere palesi manifeste falsità provenienti da istituzioni e personaggi pubblici, come le affermazioni inaccettabili del Ministro Lorenzin sui presunti 270 morti per morbillo in Inghilterra e del presidente dei Pediatri italiani sui 3 o 4 casi di effetti avversi ogni 20 anni.

Se non altro, le analisi del Corvelva hanno il merito di aver rotto il muro di fallacie propagandistiche e di affermazioni dogmatiche (e dogmaticamente false) con le quali si è finora impedito un dibattito serio sulle vaccinazioni obbligatorie. Su Internet e sui social network molti esperti hanno dovuto entrare nel merito, anche solo per criticare. Questo è sano e rende onore alla scienza e alla democrazia, mentre le disonorano l’espellere dall’Ordine i medici che presentano dati scomodi o l’insultare qualunque voce critica. Ma, ripeto, occorre alzare lo sguardo: il problema – gravissimo e gravemente minaccioso per tutti noi – è quello dell’informazione manipolata, non la falsa e artificiosa contrapposizione pro-vax/no-vax.

I giornalisti onesti e coraggiosi sono il sale della democrazia costituzionale; è di essi che abbiamo assolutamente bisogno. E se ce ne sono, com’è certo, che si facciano avanti.

Si può parlare di spiritualità (laica) in politica? Ovvero: come decolonizzare le menti dall’ideologia neoliberista.

Ambrogio Lorenzetti, “Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo” (1338-39), conservato nel Palazzo Pubblico di Siena.

Senza le strade interiori dello spirito non si può camminare eretti e con dignità sulle strade esteriori del mondo (Ernst Bloch).

La riflessione svolta nei due precedenti articoli (La perversione neoliberista e la legge della “Buona Scuola” e Ce lo chiede l’Europa? Le politiche scolastiche e la Costituzione neoliberista) su neoliberismo e riforme della scuola ha messo in luce il complesso retroterra ideologico che ha governato le riforme della scuola in Italia dagli anni ’90 in poi, così come il processo della globalizzazione, della formazione dell’UE, delle politiche economiche e sociali ispirate all’austerity, alle privatizzazioni e allo “Stato minimo”.

Considerata con il senno del poi, la cosiddetta “fine delle ideologie”, seguita al crollo del comunismo sovietico, sembra per certi versi presentarsi come la fine del pluralismo delle idee, nel nome di un pensiero unico tanto più insidioso quanto meno percepito come ideologico.

Proprio la capacità mimetica del neoliberismo, che si presentò dagli anni ’70 e ’80 come un sapere scientifico, esposto sotto forma di complesse e apparentemente indiscutibili dimostrazioni matematiche, ne ha garantito la diffusione come sapere “oggettivo” e neutrale. In un mondo nel quale, in assenza di altri validi punti di riferimento, la scienza appare (più o meno ragionevolmente) l’unico sapere certo e l’unica via di accesso alla verità, le brillanti teorizzazioni di Friedman e colleghi potevano passare per verità assiomatiche.

Non si deve mai sottovalutare il potere dell’ideologia, che, come ci ha insegnato Marx, altera la percezione stessa della realtà, distorcendone senso e contorni e producendo una falsa coscienza. Il neoliberismo ha fatto dell’economia il perno immobile intorno al quale girano tutte le altre attività umane e il metro di giudizio di tutti i valori. Quanto ciò sia assurdo, appare chiaro non appena ci si rifletta con mente distaccata, ma proprio questo distacco è la condizione psicologica difficile da conquistare, immersi come siamo in un mondo simbolico interamente dominato e colonizzato da questa unilaterale visione del mondo.

Come per un pesce è difficile riconoscere di essere immerso nell’acqua, perché non conosce altre condizioni, per noi è difficile riconoscere di avere interiorizzato in profondità una concezione tanto malata e maligna del mondo e dei rapporti umani, finché non ne immaginiamo altre possibili. Liberarsene è un lavoro autenticamente spirituale, che richiede capacità di distacco, come si è detto, senso critico e differenti valori di riferimento. Se, come disse Margaret Thatcher, “l’economia è il mezzo; l’obiettivo è cambiare il cuore e l’anima”, è proprio dai sentimenti e dall’anima che dobbiamo partire per invertire la rotta.

Guardare con distacco e senso critico la torsione neoliberista che ha sfigurato il nostro vivere civile, snaturando i valori democratici, solidaristici e partecipativi alla base della Costituzione italiana del ’48 (prima delle successive modifiche peggiorative) richiede prima di tutto l’attitudine a vedere che cosa è cambiato rispetto al testo del ’48 e come è stata svuotata di contenuti la nostra bella Carta fondamentale della Repubblica, per mezzo di un vero e proprio colpo di stato strisciante e subdolo.

Con l’aiuto del costituzionalista Mauro Scardovelli, possiamo provare a ricostruire i primi articoli della Costituzione neoliberista realmente vigente, che non è quella scritta, ma quella tacitamente presupposta negli interventi dei politici, della Commissione europea, nei mass media e propagandata da decenni con uniforme e concorde ripetitività. Vi invito a confrontarla con il testo costituzionale del ’48.

1. L’Italia è una Repubblica oligarchica, fondata sulla proprietà e sull’iniziativa privata. La sovranità appartiene ai mercati, che la esercitano nelle forme e nei limiti della Costituzione, adeguata e interpretata alla luce dei Trattati Europei.

2. La Repubblica, una e indivisibile, aderisce alla Comunità economica europea, e favorisce tutte le cessioni di sovranità, monetaria, economica e finanziaria, necessarie alla creazione del mercato comune e della moneta unica.

3. In armonia con i Trattati Europei, la Repubblica attua la libera circolazione di capitali, merci, persone e servizi, e promuove le condizioni che rendono effettiva un’economia di mercato fortemente competitiva, funzionale all’incremento e alla concentrazione di produzione e ricchezza.

4. Fatta salva la stabilità dei prezzi, ovvero la bassa inflazione, e il pareggio di bilancio, la Repubblica, in cooperazione con gli altri membri dell’Unione, mira a favorire la piena occupazione, il progresso sociale e la tutela dell’ambiente.

Commento: il forte contenimento dell’inflazione (non oltre l‘1,5% in più rispetto ai paesi economicamente più forti dell’Unione), è obiettivo primario e non derogabile. Il livello di piena occupazione va inteso nei limiti di questa prescrizione. Ogni anno la Commissione Europea, organo non elettivo, stabilisce il livello minimo di disoccupazione compatibile con il detto obiettivo (nel 2015 era il 12% per l’Italia e il 20% per la Spagna). In altri termini, il modello socioeconomico Keynesiano, previsto nell’originario modello costituzionale, è abbandonato e sostituito con il modello socioeconomico neoliberista, sul quale si fonda la Comunità Europea.

5. La pace e la giustizia tra le nazioni, la protezione dell’ambiente e della famiglia, il diritto alla salute, all’istruzione, alla pensione, il diritto al lavoro, la tutela del risparmio popolare, sono in ogni caso subordinati agli interessi commerciali e finanziari, così come pattuito nell’ordinamento internazionale vigente. Le norme della Costituzione originaria, con esso contrastanti, sono implicitamente abrogate.

6. La Repubblica promuove una forza lavoro flessibile, adattabile alle esigenze delle imprese, in grado di rispondere ai mutamenti economici, al fine di realizzare gli obiettivi di cui sopra.

Commento:

La flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro sono gli strumenti necessari a perseguire le finalità dell’Unione che, in deroga al modello originario di Costituzione, considera primaria la tutela dei capitali rispetto alla tutela del lavoro. Cioè la tutela delle cose e della proprietà privata, rispetto alla tutela delle persone e del bene comune. Secondo il modello mainstream, la trasformazione dell’originario modello socioeconomico costituzionale Keynesiano del 1948, che prevedeva lo stato sociale, la protezione del lavoro, della salute, la scuola gratuita, la previdenza, si rende necessaria per allineare l’Italia e renderla competitiva nell’ambito dell’odierna forma di globalizzazione neoliberista. Compito dell’Unione è liberare le Costituzioni del dopoguerra, dagli elementi di socialismo, adatte alle condizioni storiche di allora, ormai superate, e incompatibili con le attuali condizioni del mercato globale.

I promotori di queste riforme, a loro avviso indispensabili, hanno assunto (come è noto in base a loro recenti esplicite dichiarazioni), la grave responsabilità storica di compierle in modo graduale, con attendismo, al di fuori del processo elettorale, cioè al di fuori del processo democratico, ben consci che il popolo non le avrebbe consentite.

Per la stessa ragione, per ottenere l’approvazione dei parlamenti nazionali, la formulazione degli attuali trattati europei è complicata, oscura e contraddittoria, praticamente incomprensibile. Ai pochi giuristi, competenti anche nel settore dell’economia, è chiaro che non si tratta di un cambiamento costituzionale, ma di un vero e proprio colpo di stato. Le modifiche apportate alla Costituzione del 1948, avvenute di fatto senza alcun serio dibattito parlamentare e pubblico, corrispondono ad una sostanziale abrogazione dei suoi principi ispiratori. Ovvero ad una sua decostituzionalizzazione. È stata cambiata la forma di Stato repubblicana che, in base all’art. 139, non è soggetta a revisione da parte di nessuna maggioranza.

(Mauro Scardovelli, Essenza della Costituzione originaria ed essenza della Costituzione neoliberista a confronto)

Solo sullo sfondo di una Costituzione del genere ci si può trovare in Europa a difendere un miserabile 2,4% di rapporto deficit/PIL, mentre la Costituzione originaria, quella vera, ci parla di sovranità popolare (anche monetaria), di diritti inviolabili, di bene comune, di eguaglianza sostanziale, di lavoro dignitoso e giustamente retribuito per tutti. Appare evidente a qualunque osservatore onesto che il pareggio di bilancio (art. 81, votato all’unanimità da Centro-Sinistra e Centro-Destra nel 2012 durante il governo Monti) è incompatibile con i contenuti della Costituzione, così come lo sono alcuni altri articoli che ne hanno storpiato la fisionomia originaria.

Lasciando un momento da parte il perché di tale scempio (le cui origini lontane e prossime sono spiegate benissimo nel volume Massoni di Gioele Magaldi e sintetizzate qui), in un movimento politico che vuole invertire la rotta che ha fatto fin qui andare alla deriva il nostro Paese e distrutto intere economie sul pianeta, bisogna chiedersi come se ne esce. Esiste una via d’uscita dalla caverna platonica, nella quale siamo incatenati come schiavi a guardare le ombre che si muovono sul fondo? Possiamo prospettare altri modi di concepire il nostro destino e quello del pianeta, mentre i media mainstream, la scuola, l’Università, la politica e le istituzioni sono quasi completamente colonizzate dal pensiero unico neoliberista che ci proietta in un mondo artificiale e darwiniano fatto di egoismo, di lotta per la sopravvivenza, di competizione, di durezza del vivere, di scarsità, di ingiustizia, di subordinazione di ogni diritto al mercato e di giochi a somma zero? Bastano le misure economiche, il braccio di ferro (vero o fasullo) sui parametri imposti dall’UE o qualche timido accenno alla ripresa della spesa sociale per riprenderci ciò che una classe dirigente eversiva ci ha tolto in questi tre decenni?

Penso francamente di no. Le vere rivoluzioni cominciano nelle coscienze. La sublime perfidia del neoliberismo sta nel farci perdere il senso della connessione: dentro di noi, fra corpo, anima e spirito; fuori di noi, con i nostri simili e con l’intero Universo. Mentre assolutizzava l’economia, l’ideologia neoliberista ha deliberatamente e sistematicamente annullato la dimensione spirituale dell’uomo, riducendolo alla dimensione materiale del vivere o, peggio, ad asservirsi al denaro. Benché la parola “spirito” sia polisemica e si presti a diverse interpretazioni, è alla dimensione spirituale (laicamente intesa) che si riferiscono valori come “libertà”, “solidarietà sociale”, “giustizia”, “bene comune”, “bellezza”, “felicità”, “conoscenza”, “saggezza”, “diritti”, “rispetto”, “consapevolezza”, “responsabilità”, “elevazione”, “cooperazione”, “creatività” eccetera.

Concentrandosi sulla ricchezza materiale come unico fine dell’esistenza, per i pochi che la possono ottenere, ci ha fatto dimenticare che esistono altre forme di ricchezza, infinitamente più appaganti e capaci di rendere la vita degna di essere vissuta: la ricchezza delle relazioni umane autentiche e profonde, della salute come completo benessere psico-fisico, della bellezza dei tesori artistici e naturali, della condivisione e della cooperazione, della nostra crescita umana e spirituale, dell’agire costruttivo nel lavoro, nella famiglia e nelle attività sociali, dell’armonia di una società meno lacerata da disuguaglianze, egoismi e sopraffazione, di un ambiente naturale pulito e rispettato.

Lungi dall’essere l’utopia di anime belle, i valori spirituali sono in primo luogo il salvagente che ci permette di non sprofondare nella melma della disperazione, della rassegnazione, della rabbia, della paura e della colpa; poi sono i criteri che orientano parole, pensieri e azioni verso un obiettivo preciso: riprenderci la nostra dignità di esseri completi e multidimensionali. Non c’è bisogno di uscire misticamente dal mondo per realizzarli. Essi sono dentro di noi e nella nostra storia e li troviamo concentrati nella Costituzione e in altri documenti ispirati come la Dichiarazione Universale dei diritti umani. Essi si fondano su una visione dell’uomo come essere sociale, empatico, cooperativo, creativo, amorevole, libero, consapevole e degno di rispetto. Certamente gli esseri umani possono essere egoisti, ostili, individualisti, ottusi, servili, violenti e inconsapevoli, ma non si tratta dell’unica opzione disponibile. Come gli schiavi nella caverna platonica, possiamo scegliere se rimanere incatenati o liberarci dalla degradazione che ci abbrutisce.

Ritengo perciò che la politica non debba sentirsi troppo a disagio a parlare di spiritualità, intesa come la connessione verticale con la parte migliore di noi stessi e con le dimensioni superiori dell’essere. Il primo lavoro da fare per disintossicare le menti, nostre e altrui, è cambiare il linguaggio. Il linguaggio programma il pensiero, come ci ha magistralmente insegnato George Orwell in 1984. Dobbiamo riconoscere e rifiutare la neolingua neoliberista che infarcisce i testi delle leggi, i documenti sulla scuola, gli articoli giornalistici, i programmi televisivi, i dibattiti politici, i discorsi comuni. Dovremmo criticarla, contestarla, protestare quando la incontriamo (alla radio, alla TV, nei discorsi quotidiani) e difendere lo spirito della nostra Costituzione con le unghie e con i denti, ogni giorno.

Dobbiamo poi riconoscere la menzogna che ci rende schiavi da decenni: che, come Italiani, siamo poveri, spendaccioni, corrotti, inaffidabili, incapaci, soli, colpevoli. Disponiamo di tesori immensi di bellezza e di genialità, abbiamo molte risorse creative e imprenditoriali, abbiamo una tradizione di solidarietà e di Stato sociale e non siamo affatto soli, se smettiamo di crederlo e uniamo le forze per rovesciare l’oppressione oligarchica che ci schiaccia.

Bisogna ripartire dalla scuola e dalla cultura, i due capitoli più intenzionalmente e vergognosamente trascurati negli investimenti pubblici dai governi pilotati dalle élites neoaristocratiche, mentre costituirebbero la principale risorsa umana ed economica di questo straordinario Paese. Ci sono voluti più di trent’anni per asfaltare la scuola pubblica e trasformarla nel guscio vuoto che è l’istruzione privatizzata, standardizzata, aziendalizzata e senza cultura di adesso, che è il risultato della stagione interminabile di tagli e stravolgimenti sostanziali mascherati da riforme. Ce ne vorranno altrettanti per riportarla ai valori della Costituzione, ma si potrà farlo solo se si percepisce chiaramente il degrado che essa ha subito sotto lo sguardo distratto dei cittadini. Come Movimento metapartitico, dovremmo fare ciò che l’attuale governo non ha capito, forse per mancanza di acume analitico o per mancanza di autentica sostanza politica, e cioè riportare i bisogni veri della scuola e delle generazioni future in testa al dibattito pubblico, perché solo da lì passerà un cambiamento autentico di prospettiva.

Il nostro immenso patrimonio culturale merita ben altra considerazione e lungimiranza. Non è ammissibile che siano senza lavoro o in condizione di assurda precarietà tanti giovani preparati, creativi e amanti della bellezza che ci circonda ovunque, mentre la nostra più grande ricchezza degrada e va in rovina per mancanza di cura. Non ci sarà futuro per noi senza un’istruzione di qualità e senza un adeguato investimento in cultura.

Non basterà l’economia a salvarci, se perderemo di vista la nostra identità storica e il senso stesso del vivere civile. Ci servono perciò idee lungimiranti e uomini che le incarnino con passione disinteressata e profonda connessione spirituale con ciò che ci rende migliori. Come scrisse con ragione Max Weber (La politica come professione),

Si può dire che tre qualità sono soprattutto decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza.

Dobbiamo riuscire a guardare lontano, nella direzione indicata da Max Weber, da Ernst Bloch e da tanti grandi uomini che, senza retorica, ma con grande consapevolezza, ci hanno già tracciato la strada.

Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?

A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del Paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ’80 e ’90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti.

La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi, a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile. In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società SIAS, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de Il Fatto quotidiano di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo IRI, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri Paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de Il Sole 24 ore). Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’IRI, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del Paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così.

Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume La grande trasformazione, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ’80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile.

Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi? La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione eccetera. Esistono, però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia.

Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.

Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’”ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole.

Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza. Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. 

Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna. Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi.

Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone. Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione.

Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: “La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”. Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo a vivere.

[continua]

Ce lo chiede l’Europa? Le politiche scolastiche e la Costituzione neoliberista

Dopo aver analizzato la fondamentale ispirazione neoliberista della legge sulla Buona Scuola (La perversione neoliberista e la legge della “Buona Scuola”), occorre ora comprendere da dove arrivi questa impostazione ideologica.

Sarebbe un errore pensare che la curvatura in senso neoliberista impressa alla scuola italiana negli ultimi 20 anni sia una scelta autonoma dei politici nazionali. È certamente una loro responsabilità ed un effetto della loro ignavia, ma l’origine della scuola neoliberista è da ricercarsi nel modello di Europa che è stato realizzato a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso. Nei trattati europei – il Trattato sull’Unione europea (TUE), del 1986, confluito nel Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE), del 2007 – non si parla di una politica europea dell’istruzione. L’Articolo 165 del TFUE (ex articolo 149 del TCE) afferma al comma 1:

L’Unione contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione nel pieno rispetto della responsabilità degli Stati membri per quanto riguarda il contenuto dell’insegnamento e l’organizzazione del sistema di istruzione, nonché delle loro diversità culturali e linguistiche.

Non si parla, cioè di un indirizzo comune fra gli Stati europei, ma di una generica collaborazione fra Stati con completa autonomia in materia di istruzione. L’idea di imprimere una direzione comune alle politiche scolastiche matura al di fuori delle istituzioni europee, in alcuni circoli privati di industriali.

Se si vuole situare la nascita di una politica comune in Europa non è alla Commissione europea, al Consiglio dei ministri e ancora meno al Parlamento europeo che dobbiamo guardare quanto, piuttosto, alla potente lobby padronale della Tavola Rotonda Europea degli industriali (ERT). Creato nel 1983, questo gruppo di pressione riunisce una quarantina tra i più potenti dirigenti industriali europei, come Peter Brabeck (Nestlé), Paolo Fresco (Fiat), Leif Johansson (Volvo), Thomas Middelhoff (Bertelsmann), Peter Sutherland (BP) o Jürgen Weber (Lufthansa). Il loro lavoro comune consiste nell’analizzare le politiche europee nell’ambito dei diversi settori e nel formulare raccomandazione corrispondenti ai propri obiettivi strategici. Alla fine del 1989 un «gruppo di lavoro educazione» dell’ERT pubblica un rapporto intitolato «Educazione e competenza in Europa». Questo sarà il primo di una lunga serie di documenti ad affermare «l’importanza strategica vitale della formazione e dell’educazione per la competitività europea» e a perorare «un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro programmi».

In particolare vi si legge che «l’industria non ha che un’influenza molto debole sui programmi impartiti», e che gli insegnanti hanno «una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari e della nozione di profitto», che «non comprendono i bisogni dell’industria» [ERT 1989]. Comunque, insiste la Tavola Rotonda, «competenza ed educazione sono fattori di riuscita vitali». In conclusione, la lobby padronale suggerisce di «moltiplicare i partenariati tra le scuole (e) le imprese». Invita gli industriali a «prender parte attiva allo sforzo educativo» e chiede ai responsabili politici «di coinvolgere le industrie nelle discussioni concernenti l’educazione» [ERT 1995].

La Tavola Rotonda rimprovera anche che «nella maggior parte d’Europa, le scuole (siano) integrate in un sistema pubblico centralizzato, gestito da una burocrazia che rallenta la loro evoluzione o le rende impermeabili alle domande di cambiamento provenienti dall’esterno» [ERT 1995]. I datori [di lavoro] reclamano dei lavoratori «autonomi, in grado di adattarsi ad un continuo cambiamento e di accettare senza posa nuove sfide» [ERT 1995].

[Nico Hirtt, L’Europa, la scuola e il profitto. Nascita di una politica educativa comune in Europa, http://www.edscuola.it/archivio/ped/europa_scuola_profitto.htm, traduzione di Paola Capozzi]

Troviamo qui la retorica che accompagnerà tutti i documenti europei successivi: la scuola è finalizzata all’economia e al lavoro, è al servizio dell’industria, coinvolge gli imprenditori nello sforzo educativo, è orientata alla competizione e al profitto, deve rinnovarsi velocemente, deve formare lavoratori autonomi e flessibili, sempre pronti ad adattarsi ai cambiamenti (senza gravare per la formazione sulle imprese) e impegnati nell’educazione permanente.

Un decennio dopo la creazione dell’ERT, nel 1992, il Trattato di Maastricht affida alla Commissione europea (organo non elettivo, ricordiamolo) il compito di delineare una politica europea dell’istruzione:

l’articolo 126 del Trattato di Maastricht accorda per la prima volta alla Commissione europea competenze in materia di insegnamento. A tal fine viene creata la DGXXII, la Direzione generale dell’Educazione, della Formazione e della Gioventù, diretta dalla socialista francese Edith Cresson. Si tratta di una sorta di «ministero» europeo dell’Educazione. Mme Cresson mette rapidamente in azione un «gruppo di riflessione sull’Educazione e la formazione» sotto l’egida del prof. Jean-Louis Reiffers. Dopo aver direttamente partecipato all’elaborazione del Libro Bianco «Insegnare e imparare: verso la società cognitiva», tale gruppo, nel 1996, esprime le proprie raccomandazioni. Si legge che «è adattandosi alle caratteristiche dell’impresa dell’anno 2000 che i sistemi d’educazione e di formazione potrebbero contribuire alla competitività europea e al mantenimento dell’occupazione.» [REIFFERS 1996]. (Ibid.)

La Commissione europea, insomma, mette nero su bianco le indicazioni degli industriali. Emergono continuamente come finalità dell’istruzione l’adattamento alle esigenze delle imprese, l’occupazione e la competitività. Nel 2000, a Lisbona, si esalta l’e-learning come nuova frontiera dell’insegnamento e si tracciano gli obiettivi economici della futura “società della conoscenza”:

L’idea madre, l’ideologia fondatrice di questa politica educativa comune, è riassunta come segue nella maggior parte di questi documenti: «l’Unione europea si trova di fronte ad una svolta formidabile indotta dalla mondializzazione e dalle sfide relative a una nuova economia fondata sulla conoscenza». Da quel momento l’insegnamento europeo deve piegarsi ad un «obiettivo strategico» principale: aiutare l’Europa a «diventare l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura» [CCE 2001]. (Ibid.)

I cardini delle politiche europee (della Commissione, beninteso) per la scuola sono quindi perfettamente collocabili nel quadro dell’ideologia neoliberista: poiché tutta la realtà umana va guardata esclusivamente da una prospettiva economica, la competizione economica è il fine dell’istruzione. Appare quasi superfluo osservare che questo modo di intendere l’istruzione è lontanissimo dalla visione della scuola come organo costituzionale, che forma uomini e cittadini alla vita democratica e trasmette la cultura da una generazione all’altra, quale è delineata dalla Costituzione italiana del ‘48.

Il virus neoliberista penetra in ogni meandro del linguaggio dei documenti europei, contaminando alla radice tutto ciò che nella Costituzione parla di cultura, solidarietà, cooperazione, inclusione, partecipazione democratica, diritti, uguaglianza sostanziale.

Si parla di competenze professionali (nelle nuove tecnologie informatiche, nelle lingue, nello spirito d’impresa, nella pluridisciplinarietà) e sociali («fiducia in se stessi, indipendenza, attitudine ad assumersi rischi» CCE 2000-b), di formazione permanente (sviluppando le competenze di base e la capacità di imparare e facendo così risparmiare le imprese sulla formazione), di alfabetizzazione informatica ed e-learning, di deregolamentazione e decentramento dei sistemi di istruzione nazionali, per renderli “flessibili” e metterli in concorrenza fra loro, di partnerariato con le imprese («Gli istituti scolastici, i centri di formazione e le università dovrebbero essere aperti sul mondo: è opportuno assicurare i loro legami con l’ambiente locale, con le imprese e con i datori di lavoro in particolare, per migliorare la comprensione dei bisogni di questi ultimi e accrescere in questo modo l’occupabilità dei discenti» [CCE 2001]), di diversificazione dell’offerta, per venire incontro a bisogni diversi e «creare sistemi elastici di validità dei titoli» [Présidence du Conseil européen, 2000] (ovvero, indebolire il valore legale del titolo di studio, per aumentare la flessibilità e ridurre le tutele), di mobilità degli studenti, ottimo alibi per l’armonizzazione dei percorsi di studi e per un controllo europeo dell’insegnamento, di cittadinanza e impegno sociale (obiettivo che però poi tende ad indebolirsi nei documenti successivi) e di lotta all’esclusione, da attuare in tre modi: la sponsorizzazione delle scuole da parte di imprese, le convenzioni d’inserimento scuola-impresa (ecco lì l’alternanza scuola-lavoro), l’attuazione di tecnologie educative di punta [CCE 1995].

In un contesto di feroce competizione economica e di continua innovazione tecnologica, se la scuola è finalizzata all’impresa si producono due conseguenze: la prima è che diventano necessarie figure di professionisti ad alta specializzazione tecnologica, la seconda è che la precarizzazione del lavoro aumenta la richiesta di personale a bassa qualifica e con contratti a termine. Il mondo economico neoliberista richiede una scuola duale, nella quale gli estremi si allontanano sempre di più. Il dualismo formativo si accompagna alla terza conseguenza della competizione economica: la riduzione della spesa sociale come conseguenza della riduzione della pressione fiscale richiesta dalle imprese, per sostenerle nella competizione globale (“defiscalizzazione competitiva”). La scuola neoliberista è competitiva e ridotta all’essenziale e convive con una pluralità di enti privati che erogano formazione. Così anche l’insegnamento diventa un mercato e la deregulation coinvolge l’istruzione:

Per la Tavola Rotonda degli Industriali, « la resistenza naturale dell’insegnamento pubblico tradizionale dovrà essere superata attraverso l’utilizzo di metodi che combinano l’incoraggiamento, l’affermazione di obiettivi, l’orientamento verso l’utente e la concorrenza, soprattutto quella del settore privato » [ERT 1989]. (Ibid.)

Di qui l’insistenza sulle competenze, anziché sulle conoscenze e sulla cultura:

Lo scivolamento dei saperi verso le competenze è spiegato quindi non da un sussulto d’innovazione pedagogica, come si potrebbe ritenere, ma essenzialmente da una volontà di adeguamento della mano d’opera ad un ambiente di produzione caotico e dualizzato. Per quel 20-25% di manodopera che occuperà i posti a un livello molto alto di qualificazione, i saperi scolastici sono per lo più obsoleti. Per il 40- 50% dei posti a livello di qualificazione molto basso, sono superflui. Dal che la volontà di concentrare la formazione su quelle competenze di base comuni a tutti: lettura, scrittura, calcolo, alfabetizzazione informatica, adattabilità, capacità di risolvere problemi, competenze sociali, etc… (Ibid.; corsivo mio)

Ecco spiegato perché il governo Berlusconi, con la Ministra dell’Istruzione Letizia Moratti, si pose dal 2001 come obiettivi il ridimensionamento del ruolo dello Stato nell’ambito dell’istruzione e la concorrenza fra scuola pubblica e privata; la riduzione della spesa per l’istruzione, diminuendo le risorse, il numero dei docenti, delle ore di scuola, in particolare il tempo prolungato e il tempo pieno; il mantenimento del sistema scolastico tradizionale, rigidamente costituito in ordinamenti separati (legge delega n.53 del 2003, solo parzialmente applicata per l’opposizione serrata dei docenti), con la scelta precoce della scuola superiore a 13 anni; la riduzione delle ore di lezione a 27 settimanali; il ritorno al maestro unico di ottocentesca memoria (tutor); l’anticipo della frequenza nella scuola d’infanzia; la progressiva sparizione del tempo pieno; nuovi programmi che, allegati alla legge, diventavano obbligatori, in palese contrasto con la norma, ancora vigente, sull’autonomia scolastica; la creazione di un sistema secondario duale, con la rigida separazione fra i licei, sotto il controllo dello Stato, e gli istituti tecnici e professionali, affidati alle Regioni (D. Lgs. n. 226 / 2005).

Ed ecco l’origine del patetico slogan di quegli anni, le tristemente famose “tre ‘i’” della Moratti: Inglese, Informatica e Impresa. In queste tre parole si sintetizza un intero programma politico europeo, imprigionato dalla retorica neoliberista, e la fine della scuola come organo costituzionale, produttrice di cultura, di cittadinanza democratica e di uguaglianza sostanziale di cui parlava il padre costituente Piero Calamandrei.

È lo stesso paradigma che porta qualche anno dopo il Ministro dell’Economia Tremonti e la Ministra dell’Istruzione Maria Stella Gelmini (altro governo Berlusconi) ad una pseudo-riforma (legge 133/2008) che ha come unico criterio il massiccio de-finanziamento della scuola pubblica, già intrapreso da Letizia Moratti. Più che di una riforma, si tratta di una scientifica e draconiana amputazione della scuola pubblica a fini di bilancio e – meno dichiarato – di indebolimento del sistema pubblico di istruzione, che da allora agonizza in mezzo a ristrettezze infinite.

In pochi minuti di Consiglio dei ministri, nel luglio 2008 Tremonti ottiene senza battere ciglio 8 miliardi di euro di tagli alla scuola sui 40 del bilancio complessivo. Nessun comparto pubblico verrà devastato con altrettanta determinazione:

  • 87.000 insegnanti in meno (licenziati in tronco, perché precari), 44.000 ATA (amministrativi e bidelli) in meno, aumento del numero degli alunni per classe, con classi di 30-40 alunni, riduzione del numero di ore delle materie, taglio del tempo pieno e dei moduli alla scuola primaria (con conseguenze gravi soprattutto al Sud nelle terre di mafia), taglio dei laboratori ai tecnici e ai professionali, saturazione delle cattedre a orario pieno (con conseguente discontinuità didattica), aumento del precariato, blocco delle assunzioni per concorso e delle carriere dei docenti, revisione al ribasso dei programmi, con la neutralizzazione di ogni prospettiva critica e con l’indebolimento massiccio dello studio della storia;
  • ritorno alla scuola ottocentesca con il maestro unico nella scuola primaria, il ritorno dei voti numerici, abrogati nel 1977, e riordino della scuola superiore basato sulla Riforma Moratti, con la sua rigida separazione ordinamentale, ignorando i frutti positivi delle sperimentazioni degli anni ‘90;
  • riduzione drastica dei fondi alle scuole, che minaccia il principio di gratuità dell’istruzione (per sopravvivere, le scuole chiedono contributi sostanziosi alle famiglie).

Nonostante una fortissima protesta nel Paese, che raccoglie centinaia di movimenti spontanei di docenti, studenti e genitori, organizzazioni sindacali, prese di posizione politiche, la “riforma” viene condotta a termine senza alcun cedimento, con un atteggiamento autoritario e sprezzante che non ha eguali nella storia repubblicana. Gli effetti non tardano a farsi sentire:

  • l’autonomia scolastica viene fiaccata dalla mancanza di fondi;
  • vengono cancellate tutte le compresenze, utili per i progetti di recupero e integrazione scolastica;
  • il tempo pieno e la specializzazione dei docenti nei moduli, fiore all’occhiello della scuola primaria, vengono ridimensionati o cancellati (il tempo pieno praticamente sparisce al Sud), lasciando il posto al maestro solo e tuttologo (più che unico), allo spezzatino didattico (suddivisione di parti di orario fra diversi docenti per coprire i buchi di orario nelle classi), alle classi-pollaio, all’impossibilità di garantire il servizio di pre-scuola e a volte la stessa vigilanza degli alunni per carenza di bidelli;
  • l’insegnamento dell’inglese nella scuola primaria cessa di essere affidato ai 9000 docenti specialisti con formazione specifica in Lingue, per essere assegnato alle docenti di classe dopo 30 ore di formazione;
  • gli istituti tecnici e professionali perdono gran parte delle ore di laboratorio;
  • i licei si vedono ridurre le ore di scuola; alcune materie, come la storia e la filosofia, vengono ridotte nel monte-ore, con modifiche alla distribuzione della materia nei cicli di scuola e nelle classi della secondaria superiore che rendono impossibile trattare il Novecento, che resta quindi solo sulla carta delle Indicazioni Nazionali;
  • le sperimentazioni più moderne, capaci di favorire un pensiero critico e complesso, come il Liceo delle Scienze sociali, vengono sostituite da percorsi di studio molto meno consistenti dal punto di vista culturale e svuotati di ogni potenziale critico, come avviene con il Liceo delle Scienze umane, che ripropone, con nome diverso ma eguale ideologia di fondo, il vecchio Istituto Magistrale di gentiliana memoria, una sorta di liceo femminile di serie B.

Nella cronica mancanza di fondi, le scuole vanno avanti di emergenza in emergenza, attingendo ai contributi semivolontari delle famiglie e al volontariato dei docenti, che continuano a fare le stesse cose di prima o gratis o con un compenso da caporalato di Stato.

Questo il quadro desolante nel quale si inserisce la Buona Scuola di Renzi a completare l’opera. La perversione ideologica che sostiene questa visione stravolta ed eversiva della scuola democratica consiste nello spacciare per positivo e vantaggioso proprio ciò che toglie alle future generazioni ogni speranza di riscatto umano e sociale.

L’ossessivo mantra della formazione per il lavoro, della competizione, della centralità delle nuove tecnologie (TIC), del cambiamento a tutti i costi, della partecipazione delle imprese nei programmi e nella didattica, per esempio attraverso l’alternanza scuola-lavoro e il finanziamento privato della scuola pubblica, del rinnovamento dei metodi di insegnamento a favore dello sviluppo delle competenze, dell’educazione permanente, rappresentano il belletto con il quale si maschera una realtà sociale data per scontata e immodificabile, fondata sul profitto ad ogni costo, sulla subalternità di ogni valore al denaro, sullo sfruttamento del lavoro, sul controllo delle coscienze, sull’addestramento di una manodopera docile e complice del proprio asservimento, sul furto di cultura e di identità, sull’impoverimento del sapere.

Negli anni, il mantra si ripete sempre uguale. Questo dice, per esempio, il Progetto dell’UE per la modernizzazione dell’istruzione superiore (COM/2011/567) del 2011:

L’insegnamento superiore incrementa il potenziale individuale e deve dotare i diplomati delle conoscenze e delle competenze trasferibili essenziali che consentiranno loro di riuscire ad ottenere posti altamente qualificati. Tuttavia, i programmi d’insegnamento reagiscono spesso con lentezza all’evoluzione delle esigenze dell’economia in generale e non riescono ad anticipare le carriere del futuro, né a contribuire a modellarle; i diplomati fanno fatica a trovare un impegno di qualità che sia conforme ai loro studi. Associare i datori di lavoro e le istituzioni del mercato del lavoro alla definizione e alla realizzazione dei programmi, sostenere gli scambi di personale e introdurre l’esperienza pratica nei corsi può aiutare ad adattare i programmi di studio alle necessità attuali e future del mercato del lavoro, favorendo l’occupabilità e lo spirito imprenditoriale. Un migliore controllo da parte degli istituti d’istruzione dei percorsi di carriera dei loro ex studenti può fornire importanti informazioni sull’elaborazione dei programmi e migliorare la loro pertinenza. (corsivo mio)
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX:52011DC0567

Alla persona comune, può sembrare lodevole che la scuola fornisca competenze spendibili nel mercato del lavoro e diffonda l’uso delle tecnologie digitali, ma questa convinzione si fonda su un colossale inganno: un sapere funzionale all’economia perde infatti ogni funzione emancipante e priva gli studenti della creatività, del pensiero critico, del senso della propria libertà interiore e civile che rende possibile la consapevolezza, la ribellione e la costruzione di un mondo migliore. Alla lunga, mina il senso stesso dell’identità culturale di un popolo e produce lavoratori standardizzati, flessibili, senz’anima e disposti a consegnare le loro precarie esistenze ad una globalizzazione che segue unicamente la legge del mercato. Il nemico della scuola neoliberista non è l’ignoranza, ma la democrazia.

Il confronto fra il dettato costituzionale, che ci descrive il dover essere della scuola democratica, e l’implicita costituzione neoliberista, che invece è a fondamento della scuola reale, frutto del colpo di mano della burocrazia europea e degli industriali, sarà oggetto di ulteriore riflessione.

[continua]

La perversione neoliberista e la legge della “Buona Scuola”

“L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”

(Margaret Thatcher, intervista a “The Sunday Times”, 1° maggio 1981)

Non credo faccia male riparlare ogni tanto di neoliberismo. Per quanto lo si evochi spesso nelle nostre discussioni politiche, è difficile coglierne subito tutte le profonde e sottili implicazioni. A livello di teorie economiche, sappiamo tutti all’incirca quali ne siano la storia e i princìpi fondamentali: nato in circoli accademici ristretti, lautamente foraggiati per contrastare il mainstream economico keynesiano, la teoria economica neoliberista finisce con il diventare in pochi anni, fra gli anni ‘70 e ‘80, la visione dominante dell’economia, grazie agli economisti della Scuola di Chicago Friederich von Heyek e Milton Friedman, allievo di von Heyek, e ai loro allievi e collaboratori. Le sue applicazioni più note sono quelle di Augusto Pinochet in Cile, di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli USA.

Fondato su una visione assiomatica (ovvero indimostrabile) e ideale del mondo economico come di una realtà perfettamente ordinata e regolata da leggi “naturali”, al di fuori di ogni intervento regolatore dello Stato, il neoliberismo, estremizzando la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, postula la spontanea diffusione della ricchezza e del benessere come conseguenza “naturale” dell’assenza di ogni vincolo economico, giuridico, ambientale, politico, sociale all’egoistico perseguimento del profitto. Si tratta di un dogma che non ammette smentite, poiché l’idea della capacità dei mercati di autoregolarsi viene assunta come principale e indiscutibile legge dell’economia e qualunque fatto che la contraddica, quale la disoccupazione, l’aumento dell’inflazione, l’arresto della crescita, viene attribuito dalla teoria esclusivamente all’insufficiente libertà del mercato.

Per autoconvalida, quindi, la ricetta è sempre “meno Stato, più mercato” (salvo quando, in modo contraddittorio, si chiede che lo Stato intervenga ad attuare politiche pro-cicliche di austerity o a proteggere il mercato interno dalla concorrenza estera, per esempio). In questo senso, la teoria accademica diventa, nelle mani dei politici e dei potentati economici internazionali, una ideologia totale, intendendo con questo termine una produzione intellettuale sostanzialmente falsa e inautentica, che mira a dare ordine alla società e ad orientarne l’evoluzione storica, che è incorreggibile e che pretende di essere universale e globale, ovvero di dire tutto l’essenziale sull’uomo, sotto qualunque cielo e in qualunque circostanza.

Le ricette neoliberiste in economia sono principalmente tre: deregulation (ovvero assenza di regole che limitino l’acquisizione di profitti e la circolazione dei capitali), privatizzazioni (sulla base dell’assioma che il privato è più efficiente del pubblico) e riduzione della spesa sociale, per evitare l’”inquinamento” dello Stato nel mondo perfetto dei mercati.

A questa visione discutibile e astratta dell’economia, strumentale allo spostamento di ricchezza dai poveri ai ricchi e responsabile dell’aggravarsi della diseguaglianza, della miseria e della disperazione, laddove essa è stata applicata in modo inflessibile (come spiega molto bene il premio Nobel Joseph Stiglitz nel saggio La globalizzazione e i suoi oppositori), si accompagna, nella realtà storica del processo di globalizzazione, anche e soprattutto una visione distorta dell’uomo e della vita, una vera e propria perversione antropologica, che si insinua nelle coscienze, nelle famiglie, nelle comunità e che distrugge in profondità la spontanea propensione umana alla cooperazione, all’altruismo e all’empatia.

In questa visione, esiste solo il singolo, che persegue avidamente e in modo aggressivo il suo utile egoistico; la vita è una lotta per la sopravvivenza nella quale emerge chi vince nell’incessante competizione per l’accaparramento di beni finiti; l’altro essere umano è una minaccia costante al proprio benessere; il valore di ogni relazione ed esperienza umana si misura con il denaro ed è quantificabile in termini economici; non esistono limiti etici al diritto di trarre profitto dalle proprie attività, visto che per sgocciolamento (trickle down) la ricchezza accumulata dai vincenti porterà comunque benessere a tutti; lo Stato che spende per i servizi sociali è vizioso e il debito pubblico è una sorta di peccato originale che richiede un’espiazione collettiva; i mercati sono l’unico Dio a cui essere sottomessi, senza remissione; la propria felicità si persegue a danno della felicità altrui: mors tua, vita mea, in un eterno gioco a somma zero, in cui la miseria e la sofferenza prodotte sono un male necessario per consentire la crescita indefinita, unico fine dell’attività economica.

Questa deriva ideologica del neoliberismo è ben riassunta dal famoso aforisma di Margaret Thatcher: “Non esiste una cosa chiamata società, ci sono solo individui e famiglie”. Le idee di vita associata, di solidarietà sociale e di beni comuni e inalienabili sono estranee a questa visione del mondo. Tutto è quantificabile, alienabile e privatizzabile; tutto è subordinato al perseguimento dell’interesse privato e lo Stato non ha alcun ruolo nel mediare fra interessi contrapposti, anche quando i costi umani sono altissimi.

Si dice, con una certa ragionevolezza, che il neoliberismo come dottrina accademica non implichi tutte queste sovrastrutture ideologiche e che Von Heyek, Friedman e colleghi non erano così dogmatici. In effetti, qui non stiamo parlando delle teorie economiche in quanto tali, ma del modello di essere umano che esse sottendono, più o meno implicitamente, e che guida la conseguente azione politica. Stiamo parlando cioè di un fenomeno di egemonia culturale, nel senso descritto da Antonio Gramsci, ovvero di un pensiero che diventa dominante in un momento storico e consente ai gruppi al potere di esercitare una forma di controllo sulle persone, grazie al fatto che esso viene assunto nelle pratiche sociali, diffuso costantemente e interiorizzato. Questo pensiero egemonico sostituisce una visione del mondo ad un’altra e colonizza le menti, rendendo difficile uscire dal frame, dallo schema interpretativo imposto.

Per averne un saggio, basti leggere una riflessione di Gary Becker, l’allievo di Friedman che coniò l’espressione capitale umano (anch’essa pregna di questa ideologia):

Per la maggior parte dei genitori, i figli sono una fonte di reddito psicologico, o di soddisfazione. Pertanto, nella terminologia economica, essi si possono considerare un bene di consumo. I figli possono anche fornire reddito, ed in qualche caso sono anche un bene produttivo. Inoltre, né le spese né il reddito prodotto dai figli sono fissi, ma variano a seconda della loro età. Questa caratteristica fa dei figli un bene durevole, sia produttivo che di consumo. Può sembrare eccessivo, artificiale, forse anche immorale classificare i figli alla stregua di automobili, case o macchinari. Questa classificazione però non implica che le soddisfazioni o i costi associati ai figli siano gli stessi, da un punto di vista morale, di quelli che corrispondono ad altri beni durevoli).

[da G.S. Becker, L’approccio economico al comportamento umano, Bologna, il Mulino, 1998 (ed orig. 1960), p. 37]

I figli visti come beni di consumo o, peggio ancora, come bene produttivo, rappresentano adeguatamente il livello di stravolgimento assiologico di questo discorso: invece di essere funzionale alla vita, l’economia la fagocita e ne inscatola con cinica indifferenza l’infinita ricchezza in una serie di anonimi contenitori tutti uguali e misurabili, che si chiamano “beni di consumo” o “beni produttivi”. In questo delirio di onnipotenza, i legami familiari, i sentimenti, le aspirazioni, i destini di individui e popoli diventano la variabile dipendente delle leggi naturali del mercato, concepite come fisse e immodificabili, come un Fato di fronte al quale si può solo chinare la testa, con pia rassegnazione.

Non ci rendiamo sempre conto di quanto abbiamo finito per considerare normale questa maligna distorsione della realtà sub specie oeconomica, che rende pensabile l’impensabile, attraverso l’apparente neutralità del linguaggio scientifico. Finiamo con l’abituarci al fatto che in molte aree del mondo esistano bambini-schiavi, bambini-soldato, bambini-oggetto sessuale (che sono senz’altro “beni produttivi”) o al fatto che le famiglie possano essere disgregate senza riserve, perché prima vengono le esigenze produttive, quando i genitori devono accettare un posto di lavoro sempre più precario in luoghi diversi e lontani fra loro, quando devono lavorare oltre l’orario per non perdere il posto, quando l’azienda delocalizza l’attività; oppure ci diventa familiare il fatto che i bambini, sempre più soli, vengano tenuti buoni lasciandoli incollati molte ore al giorno ai loro costosi schermi digitali, che li rendono dipendenti e rubano loro esperienze ben più vitali; o ancora, riusciamo a trovare accettabili le ricette neoliberiste per la scuola, espresse in una neolingua economica dalla quale vengono espulsi la vita, la bellezza, la conoscenza, la relazione profonda e la crescita umana.

Su quest’ultimo aspetto mi voglio soffermare qui. Ci sembra ormai normale parlare di dirigenti scolastici (come in azienda), anziché di presidi; di debiti e crediti formativi, di offerta formativa, di successo formativo, di piani e pianificazione, di innovazione e imprenditorialità, di competenze intese non nel senso etimologico di un sapere a cui si aspira condividendo esperienza (cum + petere), ma come il bagaglio di strumenti per competere alla pari sul mercato (to compete), da certificare (altra parola della neolingua) e da misurare con test oggettivi e standardizzati (si ricordi il Portfolio delle competenze della Ministra Moratti, fulgido esempio di lessico aziendalista).

La Buona Scuola di Renzi è un concentrato di ideologia neoliberista, in cui tutto è finalizzato a trasformare la scuola in un’azienda, i docenti in passivi impiegati privi di autonomia professionale e costantemente sotto ricatto economico e psicologico, gli studenti in docili schiavi da addestrare per le esigenze del mondo del lavoro, ma privi di creatività e di senso critico, in cui il tempo-scuola – sempre più ridotto dal 2008 in poi, fino alla trovata dei licei quadriennali – è un tempo infarcito di attività accattivanti, ma prive di sostanza culturale, come il CLIL (ovvero l’insegnamento di una materia in lingua straniera con didattica smart) o la didattica multimediale; dove il mondo del lavoro entra di prepotenza nella didattica, diventandone lo scopo, e arriva, con il nuovo esame di Stato, a valutare l’alunno al posto del docente per una parte cospicua del voto finale; dove infine gli enti certificatori esterni, come l’INVALSI, che entrerà anch’esso nella valutazione finale dello studente, sottraggono una bella fetta di autonomia didattica al docente, costringendolo all’aberrazione del teaching to test, cioè a sacrificare ulteriormente la filosofia, la matematica, la storia o la letteratura alla preparazione al test standardizzato.

Nell’orizzonte ideologico neoliberista, non esistono né l’uomo né il cittadino, ma solo il lavoratore e il consumatore, e la standardizzazione livella ogni differenza di personalità e di profili attitudinali individuali. Da quest’anno, entra nella valutazione finale in uscita dalla scuola primaria (a 10 anni!) una qualità comportamentale che si chiama “Spirito di iniziativa ed imprenditorialità” (Decreto Legislativo 62/2017, art. 2. Valutazione nel primo ciclo). Tanto per chiarire subito qual è il fine.

Un bambino che cresce intossicato da questa visione del mondo è pronto ad accettare qualunque lesione ai propri diritti, a considerare normale l’egoismo e naturale competere con gli altri, a dare per scontata la “durezza del vivere” che è il prezzo della crescita, a considerare il lavoro, anziché la propria emancipazione personale e civile come scopo dello studio, a non fare mai domande, poiché tutto è già pianificato, predisposto e certificato, ogni conoscenza è misurabile e quantificabile e ciò che esula dalla misura standardizzata (il pensiero critico, il gusto estetico, la creatività) non ha più posto nella sua formazione e nel suo portfolio delle competenze.

In questo modello di scuola, l’autonomia didattica del docente scompare, compressa dalla pressione ministeriale a conformarsi ai metodi via via imposti dall’alto come innovativi (come se fosse il metodo a garantire il contenuto), dalle attività scolastiche obbligatorie, come l’alternanza scuola-lavoro, che sottraggono tempo alla didattica, dall’influenza dei datori di lavoro che valutano gli studenti, dai vincoli dell’INVALSI, dalla valutazione meritocratica (ovvero dalle conseguenze economiche) dei suoi risultati quantificabili con il “successo formativo” degli allievi, dall’ingerenza dei privati nel finanziamento e nella gestione degli istituti, dalla ragnatela degli obiettivi delle reti di scuole e dei PTOF, a cui ci si deve attenere.

E poiché, come dice il piano del governo, “le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola”, intervengono le risorse private che “possono contribuire a trasformare la scuola in un vero investimento collettivo” (pag. 8). Vale la pena seguire l’intera argomentazione del documento ministeriale (corsivi miei):

Le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola. Stiamo parlando della più grande e preziosa rete pubblica del Paese, ma anche di un cantiere sempre aperto, che richiede costante cura e aggiornamento. La scuola è una frontiera mobile: se pensiamo alle sfide della competizione globale, al dinamismo di una società sempre più multiculturale, alla rapidità del cambiamento tecnologico, capiamo subito le esigenze di una continua sperimentazione educativa. Vale per la scuola quanto è ormai ovvio per moltissimi altri ambiti, a partire dalla ricerca: sommare risorse pubbliche a interventi dei privati è l’unico modo per tornare a competere. Non c’è quindi nulla da temere dall’idea che, a certe condizioni, risorse private possano contribuire a trasformare la scuola in un vero investimento collettivo. A maggior ragione se ne giustifichiamo lo sforzo creando una visione comune in cui credere convintamente tutti, come cittadini. Per funzionare, questo investimento collettivo deve essere apertamente incentivato. Anzitutto per le scuole deve essere facile, facilissimo ricevere risorse. La costituzione in una Fondazione, o in un ente con autonomia patrimoniale, per la gestione di risorse provenienti dall’esterno, deve essere priva di appesantimenti burocratici.

La scuola, in questa prospettiva, deve attrezzarsi alla competizione globale (data come indiscutibile), essere in continua sperimentazione (come se fosse sempre in funzione di esigenze esterne a sé e priva di riferimenti culturali), accogliere senza storie e senza controlli finanziamenti privati (con le relative pressioni esterne), diventare un investimento collettivo (ma i soggetti di questo “noi” non sono precisati e sono facilmente individuabili nei capitali privati) e diventare una Fondazione.

Eccolo lì, il punto-chiave, quello su cui pochissimo si è detto ai cittadini: la scuola-fondazione NON è la scuola pubblica della Costituzione, NON forma uomini e cittadini, ma lavoratori già pronti a entrare velocemente e senza diritti nel mondo del lavoro, NON colma le disuguaglianze sociali, ma le accentua, rendendole territoriali, NON rilascia titoli con valore legale, ma certificazioni di competenze, abbandonando i singoli alla leggi spietate del mercato, NON educa, ma si limita ad istruire secondo la volontà di chi la finanzia. Ritroviamo qui per intero il Verbo neoliberista: deregolamentare, privatizzare e tagliare servizi pubblici con la scusa del debito pubblico e della carenza di fondi, unica realtà immodificabile. L’autonomia scolastica, nata per superare il centralismo burocratico della scuola statale, con una mutazione genetica diventa la solitudine darwiniana della scuola, che deve mantenersi a galla nella lotta per la sopravvivenza escogitando sempre nuovi modi per attrarre finanziamenti, perdendo ogni reale autonomia e diventando privata nella sostanza.

Questo è un tradimento del compito educativo della scuola ed è un violento assalto ai valori sui quali si fonda la scuola della Costituzione. Ma ne riparleremo nel prossimo articolo, cercando di vedere quali azioni concrete si possono mettere in atto per contrastare questa deriva apparentemente inarrestabile.

[continua]

L’obbligo vaccinale: come orientarsi fra le diverse posizioni in campo? [parte quinta]

Continuo con l’ultima parte l’articolo di sintesi sulle posizioni in campo riguardo all’obbligo vaccinale, dopo la parte terza e quarta, esaminando gli ultimi tre punti del dibattito.

7. I vaccini sono efficaci? E lo sono tutti allo stesso modo o alcuni più di altri?

COE e TOL. Certamente sì. Sono la più grande invenzione della medicina da sempre. Hanno consentito e consentono di salvare ogni giorno milioni di vite. È solo grazie ad essi che molte patologie sono praticamente scomparse, che non si vedono più bambini nel polmone artificiale, che la salute della popolazione è migliorata. Sono così efficaci da essere vittime del loro stesso successo. La diminuzione delle epidemie ha fatto perdere di vista che, in assenza dei vaccini, tornerebbero ad aggirarsi per l’Europa malattie ormai scomparse, come la difterite e la poliomielite e il morbillo farebbe danni gravissimi.

Morbillo 1888 2017 bdc52


LIB. È possibile che le vaccinazioni abbiano contribuito a ridurre quasi a zero molte patologie, ma è un dato di fatto storico che l’incidenza delle malattie – di tutte, sia quelle coperte da vaccinazione sia quelle non coperte, come la TBC, la malaria, la febbre tifoide, il morbillo, la pertosse – era in costante diminuzione già decenni prima che venissero introdotte le vaccinazioni da massa e la mortalità per tali patologie era praticamente a zero quando furono introdotti i vaccini. Basta guardare i grafici di ISTAT e UNICEF. Si guardi la mortalità per morbillo e si ricordi che il vaccino fu introdotto in Italia nel 1976 e raccomandato dal 1979. Poi si guardi il grafico sui casi di morbillo costruito con i dati ISTAT. Certamente il vaccino del morbillo non ha salvato milioni di vite, almeno in Europa, come sostiene con enfasi, ma senza prove, la propaganda sanitaria.

Viene davvero difficile indicare queste ultime come l’unico fattore causale in gioco né viene mai fornita la prova di questa affermazione. La semplice coincidenza temporale non è certo una prova. Il ruolo delle vaccinazioni è stato sovrastimato, a scapito di altri fattori più significativi.

In alcuni casi particolari, come quello della polio, poi, il cambiamento – mai segnalato nei grafici ad uso del popolo – dei criteri diagnostici ufficiali in senso restrittivo prima nel 1955 e poi nel 1959 – ha di fatto conteggiato come polio solo una piccola parte delle patologie che precedentemente erano chiamate così. Per forza i casi sono diminuiti in fretta proprio nel 1959! Si tratta di una diminuzione semantica e non reale, come diceva il dottor Ratner, l’epidemiologo che nel 1960 conduceva un panel di esperti sulla vaccinazione Salk.

D’altra parte, un vaccino può aver successo nell’eradicare un virus, ma peggiorare il problema iniziale, come è successo in India, dove la campagna promossa da OMS e GAVI Alliance per l’eradicazione della poliomielite ha fatto scomparire il poliovirus, ma ha fatto aumentare a dismisura i casi di paralisi flaccida non polio, identica alla paralisi da poliovirus, ma due volte più letale, collegabile al numero di vaccinazioni (47.500 nuovi casi solo nel 2011 e 60.922 nel 2012, mentre nel 1994, prima del programma di eradicazione del virus, erano solo 4800 circa), caricando oltretutto costi enormi sull’India. Per capire quanto siano state efficaci le campagne vaccinali contro la poliomielite, occorre andare a fondo, senza accontentarsi degli slogan superficiali. Il governo indiano ha deciso alla fine di tagliare i ponti con la Fondazione Bill e Melinda Gates (fra i principali promotori delle vaccinazioni di massa) per la constatata inefficacia delle vaccinazioni proposte (pentavalente) e per il loro carattere sperimentale, che ha prodotto centinaia di morti. Appare un capitolo a sé, infatti, l’uso dei vaccini nei Paesi in via di sviluppo, dove talvolta vengono sperimentati nuovi prodotti in modo irregolare, provocando danni e morti (come i 14 bambini morti in Argentina per un vaccino GSK).  Le multinazionali del farmaco hanno già collezionato lunghe serie di condanne per pratiche scorrette o illegali.

Comunque, l’efficacia dei vaccini è assai variabile. Una panoramica dei problemi connessi ai vaccini pediatrici, a cura del prof. Aldo Ferrara Massari, docente alla Facoltà di medicina di Siena, si può leggere qui. Il vaccino contro il morbillo è fra i più efficaci, ma non impedisce di sviluppare la malattia e di trasmetterla e non garantisce immunità permanente. “Secondo la FDA nel 1988, l’80% dei casi di morbillo erano di persone precedentemente vaccinate al morbillo. Stando ai dati ufficiali sulla tanto sbandierata (e inesistente) epidemia di morbillo in Italia nel 2017, il 12% dei casi si è verificato fra vaccinati  (colpendo soprattutto gli adulti, con il 74% dei casi sopra i 15 anni, e i neonati, come atteso in assenza di immunità naturale). Un recente studio, nel quale gli esami di laboratorio sono stati effettuati al CDC, dimostra la trasmissione del virus vaccinale da un soggetto vaccinato due volte ad altri soggetti vaccinati a New York.  In generale, “i dati ufficiali europei fanno pensare che le coperture vaccinali abbiano poca influenza sui casi di malattia… e ciò vale anche quando esse superano il fatidico valore del 95%” (G. Tarro, 10 cose da sapere sui vaccini, Newton Compton, 2018, p. 166).

I virus a RNA ricombinante, come quelli del morbillo, della parotite, della rosolia, del raffreddore, della rabbia e dell’epatite A hanno la caratteristica di mutare molto velocemente. Le vaccinazioni possono avere un effetto selettivo dei ceppi virali, spingendo verso lo sviluppo di ceppi più virulenti. In India, secondo quanto riferiscono alcuni scienziati, si è sviluppato un virus morbilloso mutato che non dà la malattia classica, ma attacca direttamente cervello, polmoni e reni con elevata mortalità. Secondo il prof. Tarro, sulla base di alcuni studi che indicano come, “dopo l’inizio delle vaccinazioni di massa con il vaccino MPR aumentano i casi di encefalite o encefalopatia (in media 1 caso ogni 5000 dosi di vaccino entro 3-6 mesi dalla vaccinazione) e di meningite asettica (in media un caso ogni 14.000 dosi di vaccino entro 3-5 settimane dalla vaccinazione)”, se negli anni 1960-80 venivano registrati nel nostro Paese circa 100.000 casi di morbillo naturale all’anno, negli anni 2000 ne avvenivano solo 500-600 l’anno. Però, se oggi, grazie alla bassa numerosità annuale, il morbillo naturale può causare un’encefalite ogni 3-4 anni e può uccidere un bambino ogni 65-80 anni, la somministrazione di due vaccinazioni antimorbillose a tutti i neonati italiani causa probabilmente cento encefaliti l’anno e causa la morte di circa cinque bambini l’anno (op. cit., p. 199).

Il vaccino contro la parotite è assai meno efficace e negli USA sono ormai numerosi i college (per esempio Harvard) dove la malattia (complicanze comprese) si è diffusa in popolazioni completamente vaccinate. Non per niente due ricercatori della Merck denunciarono nel 2010 la frode nei dati sull’efficacia del vaccino MPR dichiarati dall’azienda. Se si volesse verificare quanti vaccinati contro la polio negli anni ‘50-’60-’70 siano ancora protetti dal vaccino, secondo parecchi ricercatori ci sarebbero parecchie sorprese (altro che effetto gregge!); inoltre, i vaccini antipolio non impediscono affatto il contagio; alcuni soggetti risultano contagiosi decenni dopo la vaccinazione. Questo ovviamente stimola la furia vaccinista di chi vorrebbe tutti i cittadini continuamente sottoposti a richiami per ogni malattia possibile fino alla tomba, ma d’altra parte dimostra che, anche senza una copertura vaccinale elevata, le epidemie non si vedono in Europa, segno che non sono solo i vaccini ad impedirle. Il vaccino acellulare contro la pertosse non è molto efficace nell’impedire il contagio né la malattia, anzi “l’analisi di quasi 10.000 casi confermati in laboratorio in soggetti ≥3 mesi (Bolotin et al., 2015) ha mostrato che per il 77,6% erano completamente vaccinati (la copertura con ≥4 dosi di DTaP negli USA è circa dell’85% tra i 19 e i 35 mesi)” e “i vaccinati possono essere asintomatici e al tempo stesso portatori. Ciò potrebbe addirittura facilitare i contagi (Kilgore et al., 2016): un effetto “gregge” al contrario!” (P. Bellavite).  L’obbligo del vaccino antivaricella lascia perplessi, per le ragioni che hanno spinto a produrre il vaccino (contenere i costi ospedalieri) e per gli effetti indesiderabili che si porta dietro (rischio di morte 20 volte maggiore per gli adulti senza immunità naturale e un rischio di ospedalizzazione 10-15 volte maggiore rispetto ai bambini, nonché un aumento della morbosità per Herpes zoster o Fuoco di Sant’Antonio). Un discorso a parte merita il vaccino antinfluenzale, la cui utilità è assai dubbia, mentre la presenza di quantità rilevanti di mercurio lo rende almeno sospetto e renderebbe comunque contagiosi i vaccinati 6 volte più dei non vaccinati (ultimamente, alcuni lotti sono stati ritirati per morti sospette).

Senza entrare nel merito di ciascun vaccino, che in fondo non è compito nostro, diciamo che complessivamente la protezione non è garantita per tutti e non è permanente, rendendo vano il fantomatico obiettivo del 95% di soglia (arbitrario, come si è detto, e variabile per ogni vaccino), con qualunque livello di copertura vaccinale. Sarà per questo che molte ASL, disattendendo la legge, impediscono di fare gratuitamente gli esami sierologici per rilevare la presenza di immunizzazione naturale o vaccinale? Quanti casi di mancata immunizzazione si scoprirebbero? Tant’è vero, come si è detto, che l’eradicazione del morbillo, dichiarata vicinissima fin dagli anni ‘60, rappresenta come una sorta di Santo Graal sempre inseguito, ma irraggiungibile, nonostante soglie di copertura del 99-100%. Forse bisogna ammettere che non si riuscirà mai a sconfiggerlo. Lo dice il decano degli epidemiologi americani, fondatore del CDC, Alexander Langmuir, che definisce il morbillo una “infezione autolimitante di breve durata, di moderata gravità e bassa mortalità” : “A chi mi chiede: “Perché vuoi eradicare il morbillo?” rispondo con la stessa risposta che Edmund Hillary utilizzò quando gli chiesero perché voleva scalare il monte Everest: “Perché è lì”. Insomma, una questione di principio, non una necessità medica. E forse un pretesto per vaccinare all’infinito popolazioni sempre più estese. Un comunicato stampa dell’associazione medica ASSIS riassume questa posizione:

La migliore letteratura scientifica dimostra, però, che per molti vaccini non esistono prove di alcun ‘effetto gregge’, in particolare in riferimento a: tetano (non è nemmeno contagioso), difterite, pertosse, epatite B; vi sono dubbi su Haemophilus influenzae tipo B, parotite, varicella  e polio iniettivo.
Inoltre, la evocata soglia di copertura del 95% non ha basi scientifiche per tutti i vaccini  e comunque la copertura non è raggiungibile vaccinando solo i minori fino a 16 anni. Per quanto riguarda il morbillo, in particolare, ad oggi nessuna nazione lo ha eradicato  con il solo vaccino, pur avendo raggiunto coperture ben superiori al 95%.

D’altra parte, quando un professorone come il prof. Burioni cerca di dimostrare che i bambini vaccinati si ammalano meno di quelli vaccinati, incorre in infortuni scientifici come questi (non per niente il prof. Yehuda Schoenfeld, uno dei massimi esperti mondiali sulle malattie autoimmuni, che sostiene la relazione fra vaccini e autoimmunità in soggetti predisposti, ha 78.584 citazioni in riviste scientifiche, un i10-index di 1.146 e un indice H di 121 (fonte), mentre il Professor Roberto Burioni ha 2.567 citazioni, un i10-index di 61 e un indice H di 27 (fonte). Tanto per capire chi, secondo i criteri seguiti nel mondo scientifico, è considerato più autorevole  – anche se, ovviamente, costituisce fallacia ad personam fondare l’attendibilità di un argomento sull’autorità della fonte, come fanno i difensori della Scienza non democratica).

Un problema a parte è quello dei cosiddetti “bugiardini” dei vaccini, molti dei quali la scorsa estate sono stati modificati nelle indicazioni terapeutiche: per esempio, l’esavalente Hexyon, clinicamente testato fino a 24 mesi, come dichiarato dalla scheda tecnica dell’azienda, è stato esteso dall’AIFA senza ulteriori studi a soggetti di età superiore. Lo stesso è accaduto per altri preparati, usati nella vaccinazione obbligatoria, come l’Infanrix Hexa (36 mesi). In questo modo, i preparati vaccinali possono essere usati per fasce di soggetti molto più estese, ma senza alcuna contezza del rischio. Le spiegazioni date da AIFA appaiono insufficienti. Come si è già detto, si tratta di una violazione deontologica usare un farmaco per soggetti diversi da quello per i quali è stato approvato.

Oggi le vaccinazioni di massa stanno facendo sorgere molti dubbi sul futuro della salute pubblica. Pensare di eradicare tutte le malattie infettive con la vaccinazione, dal punto di vista scientifico ed epidemiologico è un mito alquanto utopistico, perché virus e batteri si adattano ai cambiamenti della società, spesso in modo inatteso. Così è avvenuto drammaticamente per gli antibiotici, il cui largo uso ha fatto emergere dei ceppi talmente resistenti da mettere in pericolo l’intero sistema sanitario. Per le vaccinazioni può avvenire qualcosa di simile, perché in pratica, non si sa ancora quali saranno le conseguenze a lungo termine sulla popolazione dei loro effetti quando vengono effettuate in modo massivo. Alcuni si pongono questa domanda: come mai negli ultimi decenni sono in continuo e preoccupante aumento molte malattie pediatriche, ma anche non pediatriche, in cui i meccanismi immunologici sono la causa principale, o comunque sono tra le cause principali? Come possiamo essere certi che la pratica generalizzata delle vaccinazioni, soprattutto in virtù del loro continuo aumento e della somministrazione di molti antigeni simultaneamente, non possa essere uno dei fattori coinvolti in queste patologie? Si dice che stanno tornando alcune malattie che si ritenevano eliminate: almeno in due casi (pertosse e simil-polio) si tratta, in alcune aree, di nuovi microorganismi verso cui i vaccini non coprono. Forse non consideriamo minimamente la possibilità che i vaccini, come gli antibiotici, possano contribuire a selezionare nuovi microorganismi. Una delle sfide principali dell’infettivologia sono i batteri multiresistenti: possiamo pensare che nel tempo si correrà lo stesso rischio con i vaccini? Alcuni casi, come già detto, sembrerebbero farlo pensare. Non basterebbe usare più cautela? (G. Tarro, 10 cose da sapere sui vaccini, Newton Compton, 2018, pp. 206-207).

RAD. Altro che efficaci! I vaccini sono dannosi e hanno causato più morti e danni di quanti ne abbiano evitati. Per fare un esempio fra i tanti, nel 2010 nel Regno Unito uscì un articolo che mostrava i dati ufficiali – largamente sottostimati – con un numero di morti e di danni gravi superiore a quelli della malattia. Dopo l’approvazione del decreto Lorenzin, in Italia a dicembre erano già 17 i bambini da 0 a 6 anni morti all’improvviso. Ora sono già una quarantina. Quanti di loro sono morti in conseguenza della vaccinazione? Qui si può leggere un elenco lunghissimo di bambini morti nel mondo in seguito a vaccinazione. Utilizzando i dati del VAERS (Vaccine Adverse Events Reporting System) statunitense, è stato calcolato che negli ultimi 20 anni negli USA sono morti per vaccini multipli 145.000 o più bambini. Come si fa a dire che le vaccinazioni di massa salvano vite umane? Si tratta di una colossale menzogna.

Questo è il prospetto preparato dal prof. Paolo Bellavite, autore del libro Vaccini sì, obblighi no. Le vaccinazioni pediatriche tra evidenze scientifiche e diritti previsti nella costituzione italiana, Cortina, 2017.

8. Perché radiare i medici dissenzienti?

COE. Perché sono degli irresponsabili che tradiscono la scienza. Sui vaccini c’è una verità incontrovertibile, certificata da un enorme corpus di ricerche peer reviewed e chi non si riferisce a tale verità non è un medico, ma un praticone e un ciarlatano, nonché una minaccia per la salute pubblica. Anzi, bisogna proprio fare in modo che chi critica i vaccini nel mondo medico venga isolato, degradato e radiato dall’Albo, perché rappresenta un pericolo per la scienza evidence based. I medici che sconsigliano i vaccini violano la deontologia professionale e vanno rimossi (parole di Walter Ricciardi, presidente dell’IIS).

TOL. I medici devono essere corretti nell’informare sui vaccini, ma ci possono essere casi in cui effettivamente il medico, in scienza e coscienza, può ritenere opportuno rinviare o evitare le vaccinazioni. Le situazioni individuali sono tante ed è conforme alla deontologia professionale la personalizzazione della cura. Inoltre, la radiazione dei medici critici limita la libertà di pensiero del professionista, al quale viene impedita una valutazione adeguata del singolo caso. La discussione va ricondotta all’ambito scientifico, non a quello disciplinare. Peraltro, il Ministro De Lorenzo, condannato per la tangente GSK per il vaccino antiepatite B, non fu radiato dall’Albo. Perché due pesi e due misure?

LIB e RAD. La radiazione di alcuni medici per aver legittimamente espresso dei dubbi sulla pratica vaccinale indiscriminata non ha nulla a che fare con una discussione scientifica, ma è una pura prova di forza. Un gruppo potente di medici sponsorizzati dalla politica e da Big Pharma vuole difendere con ogni mezzo il lucroso affare concordato a Washington nel 2014. Pur disponendo della propaganda a reti unificate e di media asserviti, vedono come una spina nel fianco i clinici seri, quelli che conoscono per esperienza quotidiana gli effetti delle vaccinazioni sui bambini e che sono perciò preoccupati. Di qui due politiche, il bastone e la carota: la radiazione di qualche medico più esposto consente di educarne cento, colpendone uno (gli altri saranno intimiditi e ridotti al silenzio); d’altra parte, i medici e i pediatri che si rendono collaborativi al piano vaccinale senza se e senza ma, e soprattutto senza scrupoli di coscienza, vengono premiati in denaro, coccolati e vezzeggiati. Tanto perché sia chiaro quale sia la linea giusta da tenere.

In questa oscena lotta di potere, il benessere e la salute dei bambini servono solo come pretesto per giustificarsi di fronte al popolo, che senza verificare si fida delle istituzioni politiche e sanitarie, anziché del proprio giudizio. È triste e penoso che la discussione scientifica, che si nutre di ricerca, di confronto metodologico, di critica, venga mortificata in questo modo. Ma è anche il segno che, sul piano scientifico, chi sostiene questa legge perversa non ha argomenti seri, capaci di reggere una discussione condotta con modalità appropriate. Il dottor Roberto Gava è stato radiato per obiezioni di questo genere.

Soprattutto, questa politica autoritaria mina alla radice la fiducia dell’utente rispetto al medico (come fa a fidarsi, se la sua decisione dipende da incentivi esterni e non dal bene del paziente?) e getta discredito sull’intera classe medica, umiliandone la libertà di pensiero e di espressione. Appare quindi ottusa e miope. In ogni caso, la Costituzione dichiara che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” (art. 33) e che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure” (art. 21). Chi vuole zittire un collega per un’opinione scientifica e non per gravi azioni contrarie alla deontologia professionale sta compiendo un gravissimo abuso, che lo colloca al di fuori della democrazia e della scienza. Si tratta di una forma di repressione dittatoriale del dissenso e di censura del libero pensiero che deve essere energicamente contrastata. D’altra parte, un articolo di The Lancet pubblicato qualche mese fa, mostrava una preoccupante tendenza alla dittatura da parte dei medici, rispetto ad altri scienziati. Il linguaggio stesso dei documenti ufficiali tradisce una mentalità inquisitoria e talebana, che tratta il dissenso scientifico come un’eresia religiosa da punire: nel Piano nazionale Vaccini si parla infatti di “azioni di deterrenza e disciplina etica e professionale nei confronti dei medici e degli operatori infedeli che non raccomandano o sconsigliano la vaccinazione” (p. 49). Si possono leggere i toni incredibilmente coercitivi e sanzionatori del Piano Nazionale Vaccini 2017-2019 ed un commento critico, scritto da un infettivologo.

9. Qual è il ruolo della scienza medica in una società democratica?

COE. La scienza non è democratica. Nella scienza, la verità non si decide a maggioranza, ma in base alla competenza. Solo chi è medico può parlare di medicina, chi ne parla senza competenza specifica è un asino ragliante (Prof. Roberto Burioni). In ambito scientifico, sono gli esperti che sanno come stanno le cose e gli altri devono fidarsi di loro. Perciò sui vaccini la gente deve tacere e obbedire.

TOL. La scienza medica richiede competenza, ma questo non significa che nessuno oltre i medici possa parlare di salute. Ci vorrebbero toni più moderati. Il compito del medico è spiegare, persuadere, non costringere. Non è il suo compito.

LIB. La scienza è così democratica che ha in comune con la democrazia il fondamento, ovvero l’indagine critica, libera e aperta (J. Dewey). Identificare la democrazia con la volontà della maggioranza implica una visione assai misera di essa. Certo che nella scienza la verità non si decide a maggioranza e che uno solo può aver ragione contro tutti, ma appunto per questo non è lecita la repressione del dissenso, nessuno possiede la verità e ogni obiezione, anche proveniente da una persona non esperta, va vagliata con rigore metodologico, perché potrebbe essere vera. I primi a insultare, zittire e offendere indistintamente colleghi e profani sono proprio i professoroni talebani che si autolegittimano come unici depositari della Verità e che per ciò stesso sono al di fuori della scienza. La scienza non è un accumulo di dogmi, ma un insieme di verità provvisorie, destinate a sempre nuove revisioni. Nessuno ne è l’interprete autentico e definitivo. Siamo di fronte ad un arrogante e ottuso razzismo dell’intelligenza, che fa male alla scienza e alla democrazia.

Inoltre, in un dibattito come quello sui vaccini, nel quale viene posto come priorità di salute pubblica un problema minore, rispetto ad altre emergenze ben più gravi (si pensi all’inquinamento atmosferico, che in Italia nell’indifferenza generale causa ogni anno 59.500 morti premature in tutte le fasce di età dovute all’eccesso di pm 2,5, 3.300 dovute all’inquinamento da ozono e 21.600 a quello da diossido di azoto – altro che il morbillo!); nel quale vengono diffuse in modo sistematico falsità, mezze verità e plateali mistificazioni; nel quale sono presenti clamorosi conflitti di interessi e grandi interessi in gioco, a spese dei contribuenti, che secondo gli estensori della legge dovrebbero pagare e tacere, ci mancherebbe pure che Pantalone non avesse diritto di parola!

Senza controllo dal basso non c’è democrazia. Senza confronto delle opinioni non c’è democrazia. Chi prende decisioni politiche deve renderne conto ai cittadini. Ed è proprio ciò che non vediamo in questo scenario da fascismo sanitario: rifiuto del confronto e del dibattito con i mezzi e i metodi della scienza, rifiuto del dissenso senza motivazione, atteggiamento autoritario e liberticida nei confronti del cittadino. Già solo questo basta a far comprendere che qui la scienza non c’entra ed è solo una questione di potere. Ma chi sono questi tiranni in camice bianco che si permettono di imporre con tanta arroganza ai cittadini italiani di subire e di tacere? Quali altre ricette di bassa cucina ci stanno preparando? Non c’è niente di cui stare tranquilli, come osserva il dottor Fabio Franchi, che osserva l’analogia dei metodi di propaganda attuali con quelli – sinistri – di un passato che credevamo alle spalle. È in pericolo la democrazia. 

Poco tempo fa Richard Horton il direttore di Lancet, una delle più famose riviste scientifiche al mondo, ha scritto che fino alla metà dei cosiddetti “articoli scientifici” apparsi sulle riviste mediche accreditate potrebbe avere una base non scientifica. E ciò non solo a causa della poco ortodossia del metodo o della grandezza dei campioni utilizzati, ma anche per il flagrante conflitto di interessi che vige tra studiosi, medici e case farmaceutiche. (prof. Luca Fazzi).

…la valutazione degli esperti è che metà della letteratura scientifica sia falsa.
“La scienza – scrive nel 2015 l’ex direttore di «The Lancet» Richard Horton – sta andando verso l’oscurità”. La sua analisi è spietata: gli scienziati troppo spesso forgiano i dati per avvalorare una tesi precostituita. Oppure rivedono le ipotesi per adattarle ai dati. Anche le riviste meritano la loro parte di critica, mentre le università sono in una lotta costante alla ricerca di soldi e talenti”. John P.A. Joannidis, docente di politiche sanitarie e direttore del Centro prevenzione e ricerca all’Università di Stanford, ha pubblicato nel 2015 su “Plos Medicine” un articolo dal titolo emblematico: “Perché la maggior parte della ricerca è falsa”. Ancor più chiare le conclusioni: adottando una serie di criteri indice della veridicità di uno studio, “le simulazioni dimostrano che per la maggioranza degli studi è assai più probabile che una ricerca sia falsa piuttosto che veritiera”. (dott. Guido Giustetto, Presidente dell’Ordine dei Medici di Torino)

Nota conclusiva.

L’argomento è vastissimo ed è impossibile sintetizzarlo in poche righe. Lo sviluppo maggior riservato agli argomenti della posizione LIB è dovuto a due ragioni: la prima, è che si tratta della posizione più diffusa in Europa occidentale; la seconda è che in Italia sui media questi argomenti sono sottoposti a costante e feroce censura. Segno, peraltro, che sono scomodi, che non si è in grado di smentirli con metodo scientifico e che, se la gente li conoscesse meglio, potrebbe farsi un’opinione più critica e meno convenzionale della faccenda. Da ultimo, a livello di riflessione politica occorre rispondere alla domanda: quale politica vaccinale è compatibile con una visione progressista, social-liberale e democratica della salute? A questo dedicherò una riflessione di sintesi a parte.

“La storia insegna infatti che la tirannia più insidiosa […] è quella che acquista potere attraverso una serie di cedimenti progressivi da parte dei cittadini”. (George Orwell)

“Se non mettiamo la Libertà delle Cure mediche nella Costituzione, verrà il tempo in cui la medicina si organizzerà, piano piano e senza farsene accorgere, in una Dittatura nascosta. E il tentativo di limitare l’arte della medicina solo ad una classe di persone, e la negazione di uguali privilegi alle altre “arti”, rappresenterà la Bastiglia della scienza medica”. (Benjamin Rush, firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza USA – 17 Sett 1787)