Se questo è un uomo. Il caro estinto come rifiuto da smaltire

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Bolliti e sciolti con l’idrossido di potassio: in questo consiste l’acquamazione o idrolisi alcalina, il procedimento super green di trattamento dei cadaveri già diffuso negli USA, in Canada, in Australia, in Messico e in Sudafrica, approdato nel Regno Unito e in Olanda e che potrebbe arrivare anche da noi. Funziona all’incirca così: il corpo del defunto viene insacchettato e introdotto in un contenitore a tubo pressurizzato e riempito con una soluzione di acqua e idrossido di potassio. Viene poi riscaldato e fatto bollire a circa 160 gradi, in modo da sciogliere completamente i tessuti molli, e dopo 4-6 ore è completamente liquefatto. Le ossa vengono prelevate, cremate e ridotte in cenere, infine consegnate ai parenti in forma di polvere bianca di fosfato di calcio, da conservare al cimitero o in casa o da disperdere in natura, secondo la volontà del morto. Eventuali protesi e dispositivi medicali vengono raccolti e smaltiti a parte, come mostra questo video girato presso l’University of California, Los Angeles (UCLA).

Niente di più ecologico, sostengono con convinzione i promotori della cremazione ad acqua, che avrebbe un impatto sulla CO2 decisamente inferiore rispetto alla cremazione con il fuoco (circa la metà) e consumerebbe fino al 90% in meno di energia. Con un piccolo dubbio: il liquido prodotto, che contiene aminoacidi, peptidi, zuccheri e sali (ma non DNA o RNA, giurano gli esperti), dove va a finire? Nelle acque reflue, come qualunque rifiuto di fogna, dicono.

Un video, che ha largamente circolato in rete (The Dead Are Liquified And Are Fed To The Living), ha insinuato tuttavia il dubbio atroce che questi resti liquefatti finiscano nella catena alimentare umana all’insaputa degli utenti, dopo adeguato trattamento, ovviamente. Non era stato il filantropo per antonomasia, Bill Gates, a investire premurosamente in sistemi di depurazione delle acque reflue che trasformano l’acqua del gabinetto in acqua potabile per i poveri del Terzo Mondo (e non solo) e si era pure fatto immortalare mentre beveva con gusto il risultato di questa meraviglia? Sempre sul pezzo, insomma, l’onnipresente Bill. Se di acque reflue si tratta anche per i corpi liquefatti con l’acquamazione, tale destino non può certo essere escluso del tutto. Del resto, se i vivi possono mangiare insetti e carne sintetica, perché non potrebbero bere acqua di fogna e liquame di cadaveri? Potrebbe essere il top dell’ecocompatibilità e forse un efficace rimedio per l’ecoansia.

Non abbiamo alcun elemento per confermare o smentire l’agghiacciante insinuazione, davvero complottista; possiamo comunque constatare che i fact-checker più accreditati si sono subito scatenati per smentirla sdegnosamente, il che già di per sé potrebbe suggerire cattivi pensieri in chi sa da chi vengono finanziati.

In alternativa, il morto può essere cremato e trasformato in diamante della memoria, da portare sempre con sé, oppure in compost da disperdere in natura, sempre per ridurre l’impatto ambientale. Non che la sepoltura classica qui in Europa sia il non plus ultra: morire in ospedale, non di rado nell’indifferenza degli altri, restare qualche ora in una squallida camera mortuaria, per essere poi zincati e seppelliti quasi subito in un cimitero dopo un frettoloso funerale non ha certamente la valenza empatica e spirituale delle pratiche funerarie di altre tradizioni culturali, ancora abituate a onorare i defunti e a considerarli spiriti incarnati.

Ma la questione è ancora un’altra: che dignità resta a un corpo umano bollito e gettato nello scarico del WC? O cremato e trasformato in diamante della memoria? O trasformato in compost per fertilizzare i terreni agricoli e i giardini? Non era la dignità riservata ai defunti il segno del passaggio dalla natura alla cultura? Abbiamo testimonianze di sepoltura che risalgono al Paleolitico. Molte civiltà umane, fra le quali quella egizia, quella greca e quella romana, hanno dato grande valore ai riti funebri e rispetto al corpo dei morti, qualunque sia la forma di sepoltura scelta: per cremazione, per inumazione, per tumulazione. Il corpo morto è stato abbandonato dall’anima, ma è un corpo umano, a cui i vivi sono legati da vincoli di sangue e di affetto, perciò va trattato con cura. E l’anima del defunto va accompagnata nel suo cammino ultraterreno, mentre i vivi devono riuscire a elaborare il lutto della perdita. Come non ricordare Antigone, figlia di Edipo, che sfida il divieto del re di Tebe per celebrare un fugace rito funebre sul corpo morto del fratello Polinice, pagando con la vita il suo atto di pietas?

Il rito funebre è un rito sociale, collettivo, che permette a chi resta di accettare poco per volta la perdita definitiva. Come scrisse l’antropologo Robert Hertz, il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti è un processo lento: «noi non possiamo pensare alla morte come tale tutta in una volta». Noi esseri umani abbiamo bisogni di riti e di tempo per dare un senso agli eventi della vita. Il rito è funzionale agli uomini, al loro equilibrio personale e comunitario, non è una procedura di smaltimento del rifiuto organico per pretestuose e antiscientifiche motivazioni ambientali (per chi ancora crede che sia la CO2 il nostro problema consiglio il documentario Climate: The movie). È la motivazione a essere raccapricciante, perché ignora la sacralità della morte e la riduce a mera questione tecnica.

Ma questa riduzione del caro estinto a pura materia disanimata da riciclare, a cosa senza valore, è del tutto in linea con la violenta disumanizzazione che abbiamo vissuto nella storia passata e recente: con gli anziani lasciati morire soli nelle RSA, senza l’estremo saluto dei propri familiari, con le persone sane inghiottite dagli ospedali per un tampone positivo e restituite in sacco nero, con i funerali proibiti, con le migliaia di morti improvvise di bambini, giovani e adulti di cui non parla nessuno sui media nazionali, con i bambini sventrati per il commercio degli organi, con i bambini fatti a pezzi e lasciati fra le macerie nel genocidio di Gaza, con i tantissimi morti di una guerra inutile in Ucraina, in Iraq, in Siria, in Cambogia e in ogni altro luogo dove il vilipendio dei morti fa il paio con la cancellazione della dignità e del diritto a esistere dei vivi.

La biocremazione sarà green, ma fa orrore. Testimonia a che punto di degradazione è giunta la nostra civiltà, che riesce solo a pensare ai vivi come mangiatori inutili e ai morti come rifiuti da smaltire. Una cultura spietata, di morte e di distruzione delle qualità spirituali, che rendono l’uomo umano e la vita degna di essere vissuta. Se questo è ancora un uomo.

Pubblicato su Sovranità popolare, n° 2, ottobre 2024 (in inglese)

If this is a man. The dearly departed as waste to be disposed of

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Boiled and dissolved with potassium hydroxide: this is aquamation or alkaline hydrolysis, the super-green procedure for treating corpses already widespread in the USA, Canada, Australia, Mexico and South Africa, which has landed in the United Kingdom and the Netherlands and could also arrive here. It works roughly as follows: the body of the deceased is bagged and placed in a pressurised tube container and filled with a solution of water and potassium hydroxide. It is then heated and boiled to about 160 C°, so that the soft tissue is completely dissolved, and after 4-6 hours it is completely liquefied. The bones are removed, cremated and reduced to ashes, and finally given to relatives in the form of a white powder of calcium phosphate, to be kept at the cemetery or at home, or to be scattered in nature, according to the wishes of the dead person. Any prostheses and medical devices are collected and disposed of separately, as this video shot at the University of California, Los Angeles (UCLA) shows.

Nothing could be more environmentally friendly, the promoters of water-based cremation strongly argue, as it would have a much lower CO2 impact than cremation by fire (about the half) and consume up to 90% less energy. With one small doubt yet: the liquid produced, which contains amino acids, peptides, sugars and salts (but not DNA or RNA, the experts swear), where does it end up? In sewage, like any sewage waste, they say.

A video, which has circulated widely on the net (The Dead Are Liquified And Are Fed To The Living), has, however, raised the atrocious doubt that these liquefied remains end up in the human food chain unbeknownst to the users, after proper treatment, of course. Wasn’t it the philanthropist par excellence, Bill Gates, who thoughtfully invested in sewage purification systems that turn toilet water into drinking water for the poor of the Third World (and beyond) and even had himself been filmed while drinking with delight the result of this marvel? Always on the ball, in short, the ubiquitous Bill. If wastewater is also the case for bodies liquefied by aquamation, such a fate certainly cannot be entirely ruled out. After all, if the living can eat insects and synthetic meat, why couldn’t they drink sewage water and corpse slurry? That could be the ultimate solution in eco-friendliness and perhaps an effective remedy for eco-anxiety.

We have no element to confirm or deny this chilling insinuation, which is indeed conspiratorial; we can however note that the most accredited fact-checkers have immediately gone wild to disdainfully deny it, which in itself might suggest bad thoughts in those who know who they are funded by.

Alternatively, the dead can be cremated and turned into a memory diamond, to be carried with you at all times, or into compost to be dispersed in nature, once again to reduce environmental impact. Not that classical burial here in Europe is the non plus ultra: dying in a hospital, not infrequently to the indifference of others, remaining for a few hours in a dingy mortuary, only to be galvanised and buried almost immediately in a cemetery after a hasty funeral certainly does not have the empathic and spiritual value of the funeral practices of other cultural traditions, still used to honouring the dead and considering them incarnate spirits.

But the question is yet another: what dignity is left to a human body boiled and flushed down the toilet? Or cremated and turned into a memory diamond? Or turned into compost to fertilise farmland and gardens? Was not the dignity reserved for the dead the sign of the passage from nature to culture? We have evidence of burial dating back to the Palaeolithic period. Many human civilisations, including the Egyptians, Greeks and Romans, placed great value on funeral rites and respect for the body of the dead, whatever form of burial they chose: by cremation, inhumation, burial. The dead body has been abandoned by the soul, but it is a human body, to which the living are bound by bonds of blood and affection, so it must be treated with care. And the soul of the deceased must be accompanied on its afterlife journey, while the living must manage to grieve the loss. How can we fail to remember Antigone, daughter of Oedipus, who defies the ban of the king of Thebes to perform a fleeting funeral rite over the dead body of her brother Polynices, paying with her life for her act of “pietas”?

The funeral rite is a social, collective rite that allows those left behind to accept the ultimate loss little by little. As the anthropologist Robert Hertz wrote, the transition from the world of the living to the world of the dead is a slow process: “We cannot think of death as death all at once”. We human beings need rituals and time to make sense of life’s events. The ritual is functional to human beings, to their personal and community balance, it is not a procedure in order to dispose of organic waste for specious and unscientific environmental reasons (for those who still believe that CO2 is our main problem, I recommend the documentary Climate: The movie). The motivation is indeed quite creepy, because it ignores the sacredness of death and reduces it to a mere technical issue.

But this reduction of the dearly departed to pure rough, dead matter to be recycled, to a worthless thing, is entirely in line with the violent dehumanisation we have experienced in past and recent history: with the elderly left to die alone in the nursing homes (without the final farewell of their families); with healthy people swallowed up by hospitals for a positive swab and delivered in black sacks; with forbidden funerals; with the thousands of sudden deaths of children, young people and adults that no one talks about in the national media; with children disembowelled for the organ trade; with children blown to pieces and left in the rubble in the Gaza genocide; with the countless deaths of an unnecessary war in Ukraine, Iraq, Syria, Cambodia and everywhere else where the vilification of the dead is matched by the erasure of the dignity and right to exist of the living.

Biocremation may be green, but it is horrifying. It testifies what point of degradation our civilisation has reached, since it can only think of the living as useless eaters and of the dead as waste to be disposed of. A ruthless culture of death and destruction of the spiritual qualities that make man human and life worth living. If this is still a man.

Pubblicato su Sovranità popolare, n° 2, ottobre 2024

Si può leggere la rivista qui sotto:

Disagio giovanile e nuove tecnologie

Approfondiamo il delicato tema del disagio giovanile in riferimento alle nuove tecnologie insieme alla Dott.ssa Patrizia Scanu, psicologa; come aiutare i giovani?

Il disagio giovanile è un problema urgente di cui si parla poco, e a partire dal nuovo numero di Terra Nuova, affrontiamo questo tema in riferimento al disagio giovanile insieme alla Dott.ssa Patrizia Scanu, psicologa ed insegnante.

L’impatto delle tecnologie digitali sul disagio giovanile

Negli ultimi anni l’uso diffuso di smartphone e dispositivi digitali ha trasformato profondamente il comportamento e le abilità degli adolescenti. La Dott.ssa Scanu, con quasi 40 anni di esperienza nell’insegnamento, evidenzia un calo significativo della concentrazione e dell’impegno nello studio tra i giovani, costantemente distratti dal digitale. Questo fenomeno, unito alla dipendenza da smartphone, ha portato a un abbassamento dei livelli di apprendimento e di autonomia, rendendo i giovani nervosi e irritabili quando si allontanano da questi dispositivi.

La contraddizione educativa e le scelte istituzionali

Se da una parte si riconoscono i rischi del digitale per lo sviluppo dei giovani, dall’altra la scuola italiana continua a promuoverne l’uso. Introducendo il digitale, soprattutto nella fascia fino ai 14 anni, si rischia di minare lo sviluppo di competenze fondamentali, come la manualità, la creatività e la lettura. Patrizia Scanu sottolinea: “Il digitale non ha effetti positivi sui processi di apprendimento nei bambini e nei ragazzi in età evolutiva”. Per i bambini e gli adolescenti, dunque, è cruciale un approccio consapevole e bilanciato.

Rischi cognitivi e dipendenza digitale

L’affidamento costante sui dispositivi digitali comporta rischi ben più profondi della dipendenza: i giovani tendono a delegare al digitale compiti basilari, come il calcolo mentale e la memoria, indebolendo le capacità cognitive a lungo termine. La Dott.ssa Scanu evidenzia come la “memoria esterna” dei dispositivi limiti il pensiero critico e l’autonomia, rendendo i ragazzi sempre più dipendenti da un supporto esterno per accedere alle informazioni.

bambina ,cellulare

Genitori consapevoli: la chiave per ridurre il disagio giovanile

Un ruolo fondamentale nel limitare il disagio giovanile legato alle nuove tecnologie è quello dei genitori. La psicologa consiglia ai genitori di informarsi sui rischi della tecnologia tramite letture come “Emergenza smartphone” del Prof. Manfred Spitzer, per comprendere meglio come il digitale possa influire negativamente sui giovani. Creare gruppi di supporto tra genitori consapevoli permette di elaborare strategie per ridurre la dipendenza tecnologica, favorendo così la crescita autonoma e responsabile dei ragazzi.

Come supportare i giovani di oggi?

Invitiamo a sviluppare un approccio consapevole e critico all’uso della tecnologia, puntando su esperienze di “disconnessione consapevole” e incentivando attività che stimolino creatività, interazione sociale e gioco all’aperto. Educare i giovani a un uso bilanciato e limitato della tecnologia è essenziale per ridurre il disagio giovanile e favorire uno sviluppo cognitivo e emotivo sano.

Terra Nuova Novembre 2024

Sito della Dott.ssa Patrizia Scanu

Consigliamo anche: Digitalizzazione, come affrontarla in modo consapevole?

disagio giovanile nuove tecnologie

Laboratorio per bambini trans, una follia

Laboratorio per bambini trans e gender creative, un follia

PIAZZA LIBERTÀ, il programma di informazione e approfondimento ideato e condotto da Armando Manocchia, ritorna sabato 28 settembre 2024 alle 20,30 sul canale  https://rumble.com/c/PiazzaLiberta

La Commissione Etica dell’Università di Roma Tre ha approvato e finanziato con fondi pubblici un “Laboratorio per bambini trans e gender creative”, previsto il 28 settembre e rivolto a bimbi dai 5 ai 14 anni. Il controverso progetto, condotto da attivisti LGBTQ+ di GenderLens, si propone di “esplorare” l’identità di genere nei più piccoli, nonostante la comunità scientifica sia profondamente divisa e in molti Paesi si stiano ritirando progetti simili per i danni che hanno causato a giovani e giovanissimi.

Armando Manocchia, con le autorevoli e competenti ospiti Patrizia Scanu e Silvia Guerini, tratterà il controverso tema.

Il manifesto dell’Università Roma Tre


Un approfondimento si può trovare qui:

Neoliberismo e manipolazione di massa

NEOLIBERISMO E MANIPOLAZIONE DI MASSA

Puntata di PIAZZA LIBERTÀ, il programma di informazione e approfondimento ideato e condotto da Armando Manocchia, di sabato 31 agosto 2024 sul canale https://rumble.com/c/PiazzaLiberta

Si parla di neoliberismo, di manipolazione di massa, di finestra di Overton, di Fmi/Banca Mondiale, di terrorismo sanitario Oms, di Passaporto vaccinale, di desovranizzazione degli Stati.

OSPITI:
 Ilaria Bifarini  – Economista, scrittrice, divulgatrice indipendente. Nota al pubblico come “bocconiana redenta” per la critica all’ideologia neoliberista in cui si è formata, e per il suo libro “Il Grande Reset”, in cui ha denunciato il piano dell’élite di Davos durante la psico-info-pandemia del Covid.

Patrizia Scanu – professoressa, insegnante, psicologa, autrice.

Gianfrancesco Vecchio – avvocato, Professore Aggregato di Diritto Privato Università di Cassino da anni impegnato nella difesa dei diritti individuali.

“L’identità sessuale non è una scelta né un’opzione”

PIAZZA LIBERTÀ, puntata di sabato 3 agosto 2024

https://rumble.com/c/PiazzaLiberta

OSPITI di Armando Manocchia:
professoressa Patrizia SCANU, psicologa;
dottor Ruggiero CAPONE, giornalista e scrittore.

L’identità sessuale è legata a fattori biologici ben definiti, che conosciamo in modo chiaro, e che possiamo descrivere con precisione. Chi nasce femmina o maschio, resta per tutta la vita femmina oppure maschio.
Il sesso percepito non esiste per la semplice ragione che ogni cellula del nostro corpo è sessuata: femmina con due cromosomi sessuali XX, maschio con cromosomi sessuali XY, con pochissime eccezioni (DSD, differenze o disturbi dello sviluppo sessuale), che non dovrebbero comunque costituire un vantaggio competitivo nello sport o minacciare la sicurezza delle atlete.

Il «transgender» è un prodotto della mente, che non ha riscontro oggettivo nella biologia umana. Tutte le tecniche di riassegnazione/transizione sessuale sono operazioni di «cosmesi» somatica, che non modificano di una virgola l’appartenenza XX o XY.

In un’epoca in cui si condanna la violenza contro le donne (o almeno così dicono), stiamo ancora a disquisire se un «maschio che si percepisce femmina» possa battersi sul ring contro un’atleta, femmina a tutti gli effetti!

Un confronto sugli aspetti contraddittori dell’approccio di genere e sul tipo di società che intende promuovere.

La scuola del futuro.

Trasmissione registrata il 2 agosto 2024 su Telegram https://t.me/UnPonteTraMondi/2053

📚 TRASMISSIONI in differita
LA SCUOLA CHE NON C’È

In questa puntata della rubrica di Giusy Pace: “La scuola del futuro”.
Riflettiamo su come è possibile formulare una proposta educativa per formare anime libere e capaci di sentire e di pensare, con ispirazione al modello umanistico dell’educazione integrale, che coinvolge corpo, mente, anima e spirito.

OSPITE SPECIALE la dottoressa Patrizia Scanu

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Stop alle telefonate! A scuola vietati i cellulari.

Intervista televisiva su Byoblu a “Che idea ti sei fatto?” (11/07/2024)

Una telefonata in meno ti allunga la vita. Addio ai cellulari nelle scuole, almeno fino alle medie. È arrivata la circolare firmata dal ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara: una decisione attesa da tempo. Esulta il Moige (Movimento italiano genitori) che chiedeva un cambiamento di rotta.

L’eccesso di tecnologia spesso crea dipendenza e danni psicofisici. Questo è visto come un primo passo verso una “bonifica” dall’eccessiva tecnologia. Intanto a scuola parte anche la sperimentazione sull’intelligenza artificiale. Le opposizioni (Pd in testa) contestano. L’ex ministro Marianna Madia parla di “risposta piccola ad un problema enorme”. Si dice che invece deve esserci un accompagnamento all’uso delle tecnologie. Ne parliamo con Elisabetta Frezza (giurista), Patrizia Scanu (psicologa e insegnante), Anna Pettinaroli (comitato Levante Stop5G) e Stefano Gandus (pediatra e oncologo). Non perderti questa puntata di “Che idea ti sei fatto?”

https://www.byoblu.com/2024/07/11/stop-alle-telefonate-a-scuola-vietati-i-cellulari-che-idea-ti-sei-fatto

5G ANNA PETTINAROLI CELLULARI A SCUOLA DIARIO ELETTRONICO DIGITALE ELISABETTA FREZZA PATRIZIA SCANU STEFANO GANDUS VALDITARA

La scuola delle multinazionali

Se si legge il Piano Scuola 4.0 sul sito del Ministero dell’Istruzione, non può sfuggire il tono esaltato con il quale si promuovono i nuovi “ecosistemi di apprendimento”, ovvero gli ambienti scolastici “innovativi e digitali”, finanziati con il PNRR “per accelerare il processo di transizione digitale della scuola italiana in tutte le diverse dimensioni e allinearlo alle priorità dell’Unione europea”. Di qui il tripudio di novità entusiasmanti, quali “la connettività per l’accesso a tutti i servizi internet alla massima velocità disponibile”, gli obiettivi “di inclusione e abilitazione di competenze” (digitali), per trionfare infine con le “next generation classrooms”, gli “ambienti on line tramite piattaforme cloud di e-learning e ambienti immersivi in realtà virtuale”, l’”eduverso” e gli “ambienti di apprendimento onlife” (!). Tralasciamo per pietà il profluvio di incomprensibili neologismi in inglese che dovrebbero conferire al testo un’apparenza di innovazione pedagogica e veniamo ai fatti.

L’utilizzo del digitale nella didattica, specialmente prima dei 14 anni, è disastroso per lo sviluppo delle capacità cognitive, sociali, emotive e relazionali, per la salute psicofisica dei ragazzi, per il loro apprendimento a scuola. Lo dimostrano centinaia di studi condotti in tutto il mondo e riferiti con ampiezza dal neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer nei suoi ormai numerosi libri divulgativi, fra i quali Demenza digitale, Emergenza smartphone, Solitudine digitale. Lo attesta la VII Commissione Istruzione del Senato, che a giugno 2021 afferma all’unanimità che “non è esagerato dire che il digitale sta decerebrando le nuove generazioni” e che non è “niente di diverso dalla cocaina” per la dipendenza di cui è causa. Lo ribadisce l’UNESCO, che parla di “tragedia dell’ed-tech mondiale”. Lo confermano i dati OCSE-PISA, che mostrano un declino delle prestazioni scolastiche degli studenti a partire dal 2012. Uno studio condotto dall’Università di Helsinki mostra che la scuola finlandese, considerata la migliore in Europa, sta perdendo colpi e ne attribuisce la principale responsabilità all’abuso di digitale nella didattica. In Svezia si sta pensando di tornare a carta e penna e si guarda all’Italia come a un modello. L’OMS nelle sue Linee guida spiega che il tempo trascorso davanti allo schermo può danneggiare i bambini e indica correlazioni con sovrappeso, obesità, problemi di sviluppo motorio e cognitivo e di salute psico-sociale. Perfino i filantropi, gli amministratori delegati, gli ingegneri e in generali i tecnici delle aziende high-tech statunitensi proibiscono l’utilizzo degli strumenti digitali ai propri figli e li mandano nelle scuole steineriane, dove il digitale è assente, perché “i magnati della Silicon Valley conoscono bene i danni che possono provocare in tenera età i gadget tecnologici dal design persuasivo sviluppati con la collaborazione di psicologi infantili”, spiega Milena Gabanelli in un articolo per il Corriere della Sera TV.

Ma se tutti sanno tutto, perché le nostre scuole vengono bombardate dalla retorica della “transizione digitale”? Perché i bambini di pochi anni sono costretti a utilizzare gli strumenti digitali anche se i genitori non sono d’accordo? Perché dobbiamo consegnare dati ultrasensibili a imprese private senza adeguata regolamentazione tramite il registro elettronico e le piattaforme digitali? Perché dobbiamo assistere impotenti alla distruzione della mente e della salute di milioni di bambini e ragazzi?

In un articolo su Bill Gates apparso su Forbes, Peter Greene scrive: “Se i dati sono il nuovo petrolio, le scuole pubbliche sono il nuovo Texas”. La frase può essere intesa in più modi: la digitalizzazione dei dati permette a soggetti privati stranieri di accedere a ogni dettaglio della vita scolastica di milioni di studenti in tutto il mondo, per farne l’uso che ritengono opportuno a fini commerciali o di controllo.

Ma la scuola è il nuovo Texas anche perché le multinazionali del digitale e delle telecomunicazioni stanno ingoiando una bella fetta delle risorse già scarsissime della scuola pubblica per piazzare i propri prodotti digitali, destinati a veloce obsolescenza e a una rapida sostituzione, e per esercitare un controllo di fatto sulla didattica. Le scandalose misure pandemiche che hanno costretto alla DAD i nostri figli sono state una manna dal cielo per tutti quei soggetti sovranazionali – le aziende ed-tech, il World Economic Forum, la Commissione europea fra tutti – che hanno enormi interessi economici diretti o indiretti nel settore digitale e per i quali non è certo la qualità degli apprendimenti e dell’offerta educativa l’obiettivo delle politiche scolastiche. È il libero mercato, bellezza!

Infine, la scuola pubblica è il Texas in un ulteriore, sinistro significato: programmare i più piccoli all’obbedienza, drogarli con la dipendenza da Internet, privarli del pensiero critico, dell’empatia, della gioia di muoversi all’aria aperta e di mettersi alla prova nelle relazioni faccia a faccia è il sogno erotico di ogni dittatore. Chi non conosce la libertà e non sa pensare non sa nemmeno di essere schiavo. Sarà per questo che gli oligarchi planetari investono così tanto in tutto ciò che può minare lo sviluppo sano e naturale dei bambini, dai prodotti farmaceutici, ai dispositivi digitali, al cibo-spazzatura, ai modelli identitari “fluidi”, all’educazione sessuale precoce, finanziando con fiumi di milioni gli influencer sui social, le associazioni di insegnanti, di medici e di psicologi, le università, i media, le organizzazioni non profit e i centri di potere a ogni livello?

Una cosa è certa: dove i miliardari “filantropi” hanno messo le mani sulla scuola, con il pretesto di migliorarla e di “innovarla”, come il progetto Common Core finanziato dalla Bill & Melinda Gates Foundation negli USA, i risultati scolastici degli studenti sono peggiorati. Come scrive Melissa McKenzie in un articolo del 14 dicembre 2020 su The American Spectator, “in pratica, i bambini americani sono ora più grassi e più stupidi. Viene negato loro il tempo di gioco, sono pieni di energia repressa e di ansia e sono drogati con la medicina per l’ADHD per reprimerli. Odiano la scuola e la loro crescita è stentata”.

La scuola ludica e artificiale della gamification priva gli allievi delle esperienze corporee ed emotive fondamentali per crescere. Questa è la cruda realtà. L’esaltazione della didattica immersiva offerta da VR (realtà virtuale) e AR (realtà aumentata) è funzionale alla vendita di prodotti tecnologici e non alla crescita armoniosa dei ragazzi. È pura propaganda commerciale. La tragedia è che, attraverso questa presunta innovazione, si costringono subdolamente gli insegnanti a modificare la didattica nella direzione voluta dalle aziende private, dalla quale spesso provengono o con le quali hanno stretti rapporti pure i politici. Per questo viene imposta senza discussione. Non reggerebbe nessun serio confronto scientifico. E per questo chi prova ad avanzare dubbi viene subito bollato come troglodita. La retorica della fallacia ad personam è l’arma più facile da usare, quando sono in gioco i miliardi.

Vale la pena di ricordare quanto scriveva Aldous Huxley ne Il nuovo mondo: “Quando i membri di una società passano gran parte del loro tempo non all’erta, col cervello ben desto, qui e ora, o nel futuro immediato, ma altrove, nell’altro mondo dello sport e dei teleromanzi, della mitologia e della fantasia metafisica, allora resistere all’assedio di chi vuole manipolare e controllare la società sarà ben difficile. […] i dittatori di domani sapranno certamente unire a quelle tecniche il flusso continuo delle distrazioni, un elemento che già oggi, in Occidente, minaccia di far affogare in un oceano di fatuità la propaganda razionale, indispensabile per la conservazione della libertà individuale e la sopravvivenza delle istituzioni democratiche”.

I genitori farebbero bene a riflettere.

Articolo pubblicato su Sovranità popolare, n°1, maggio 2024

La guerra dentro noi stessi: perché il patriarcato non è una spiegazione

Si può spiegare completamente il fenomeno della violenza di genere contro le donne come un effetto del patriarcato? La comunicazione mediatica suggerisce con insistenza questo collegamento. Ma è davvero così? Esiste una spiegazione unica, valida per tutti casi di violenza? Ecco l’analisi di Patrizia Scanu, psicologa, Gestalt counsellor e formatrice.

Si può spiegare completamente il fenomeno della violenza di genere contro le donne come un effetto del patriarcato? La comunicazione mediatica suggerisce con insistenza questo collegamento. Ma è davvero così? Esiste una spiegazione unica, valida per tutti casi di violenza? O dobbiamo allargare lo sguardo e andare più a fondo? Sicuramente, si tratta di un fenomeno complesso e multiforme, che non si presta a spiegazioni elementari e onnicomprensive e che richiede di considerare con attenzione la potenza evocativa e definitoria del linguaggio. Le parole creano la realtà e a volte ne impediscono la comprensione. Per questo la psicosofia esamina le parole con curiosità e apertura. 

Etimologicamente patriarcato significa “legge del padre” e si riferisce a una forma particolare di famiglia, nella quale il patriarca è a capo di una stirpe. Il concetto è ben delimitato dal punto di vista storico e socio-antropologico e designa il potere incontrastato che i maschi più anziani esercitano su tutti membri – uomini, donne, bambini, servi e schiavi – della famiglia estesa, soprattutto in ambiti dove è fondamentale mantenere indivisi e amministrare in modo univoco i beni della famiglia. Storicamente, se ne possono rinvenire le origini nell’antica Roma e più indietro ancora nella società descritta dall’Antico Testamento.

Nella figura del pater familias romano o del patriarca biblico si sommano il diritto di vita o di morte sui membri della famiglia e nello stesso tempo la protezione nei confronti dei familiari, di cui il patriarca ha la responsabilità e a cui è tenuto da una serie di obblighi anche gravosi. Lo squilibrio di potere è indubbiamente condizione favorevole alla violenza, ma non la contempla necessariamente e non implica sempre oppressione; anche nel mondo patriarcale ogni caso è a sé.

Le nostre società attuali portano l’impronta evidente di un secolare squilibrio di potere fra uomini e donne e tale squilibrio rende più facile ricorrere alla violenza: questo è un fatto che non può essere negato e che in sociologia viene definito come disuguaglianza sociale. Senza andare troppo lontano, possiamo ricordare che fino al 1975 il diritto di famiglia italiano chiamava “capofamiglia” il padre e sanciva la completa subordinazione della moglie al marito nei rapporti personali, in quelli patrimoniali, nelle relazioni di coppia e nei riguardi dei figli.

Tuttavia, se possiamo riconoscere anche nel nostro passato antico e recente una visione marcatamente sessista dei rapporti fra uomo e donna, non appare chiaro come il patriarcato in sé possa essere considerato l’unica causa della violenza di genere (essendo oggi tale struttura familiare piuttosto residuale nelle società occidentali) se non sulla base di un’analogia astorica e solo parzialmente utile alla comprensione del fenomeno. 

Dagli anni ’60 e ’70 (anche prima, negli Stati Uniti) sociologi di diverso orientamento, da Parsons e Bales a Riesman e a Horkheimer e Adorno parlano in coro di «crisi della famiglia» e di «società senza padre»: tale figura è entrata progressivamente in crisi, indebolita nelle sue funzioni tradizionali, che Parsons riconosceva nel procacciare sostentamento economico, nel prendere decisioni strategiche per la famiglia, nel definire le regole familiari e nel controllarne l’osservanza. 

Lungi dall’essere un padre-padrone, l’uomo attuale fatica a darsi un ruolo sociale definito e spesso vive con le donne una relazione competitiva. Non deve perciò meravigliare che la violenza sulle donne sia molto diffusa nelle società del Nord Europa, dove il patriarcato è sepolto da tempo ed è entrata largamente nella mentalità comune l’idea della parità fra i sessi. Per alludere al sessismo ancora presente nella nostra vita sociale, forse sarebbe più adatto il termine “maschilismo”, che indica una modalità relazionale fondata sul dominio, sul possesso e sulla supremazia, invece che sulla cooperazione paritaria e il riconoscimento reciproco fra uomo e donna.

Ma allora come si spiega la violenza di genere? Intanto, è impossibile individuarne una causa unica: si tratta di un fenomeno multifattoriale, al quale contribuiscono in misura notevole e variamente combinata, oltre ai fattori culturali, anche cause individuali e di contesto, come l’immaturità affettiva, l’analfabetismo emozionale, i modelli familiari vissuti da bambini, i modelli dei media (per esempio, la pornografia), i rapporti sociali predatori, lo stress lavorativo, il narcisismo diffuso, la fragilità derivante dalla perdita di ruolo e di potere, la visione materialista della vita, fondata sul possesso, tanto per citarne alcuni. 

Il problema non riguarda solo le donne: la violenza è diffusa anche nelle coppie omosessuali e, magari in forme diverse, colpisce pure gli uomini. Sarebbe un errore considerare la violenza come una prerogativa esclusiva dei maschi. Se vogliamo considerare il problema con lo sguardo più ampio e comprensivo della psicosofia sinergetica, potremmo dire che la violenza di genere è solo uno dei modi nei quali si manifesta la violenza latente nelle nostre società e che si presenta soprattutto nella famiglia, perché lì si esprimono tutte le tensioni e le contraddizioni generate dalla vicinanza e dalla relazione profonda in un contesto sociale profondamente degradato e squilibrato. Noi diventiamo violenti quando non riusciamo a tenere a bada e a trasformare la nostra mente animale (rettiliana e limbica) con la Coscienza. La violenza è cecità spirituale (avidyā) e assenza di empatia. E nelle nostre società quasi tutto congiura a mantenerci al livello più basso della nostra umanità.

Dentro ciascuno di noi, uomini e donne, sono presenti una parte maschile e una femminile, nel senso che incarniamo in noi stessi la dualità metafisica fra due opposti complementari, ben raffigurati dal Rebis alchemico e dalla polarità Yin-Yang nel Tao e descritti anche dai filosofi greci, per esempio dai Pitagorici. In questo senso, possiamo dire che un certo numero di persone (uomini e donne) manifesta un maschile violento, fatto di aggressione, predazione, sopraffazione, dominanza, possesso, competizione, tipiche della nostra natura animale oppure (spesso anche) un femminile sottomesso, vittimizzato, manipolativo, bisognoso, gregario. Quando pensiamo e agiamo usando questa parte arcaica della nostra mente siamo completamente incoscienti di ciò che facciamo e dell’effetto che ha sugli altri e su noi stessi, dato che ci degradiamo ogni volta che agiamo senza coscienza.

Ma noi siamo molto di più: abbiamo una coscienza spirituale, capace di sintonizzarsi con i valori più alti: etica, responsabilità, giustizia, amore, empatia, bellezza, gioia. Ce ne accorgiamo quando siamo creativi (la creatività è il sintomo della nostra natura spirituale), quando facciamo azioni giuste, etiche, amorevoli, quando sappiamo accogliere e dire di no a seconda dei casi. Possiamo immaginare la violenza in una persona che è così presente a se stessa?

Purtroppo, ci portiamo dentro anche la violenza e l’umiliazione millenarie dei nostri avi, sotto forma di memorie genetiche di sopraffazione e di sottomissione, che fanno da terreno fertile per ulteriori azioni dannose, in una catena infinita nella quale siamo contemporaneamente vittime e carnefici, prede e predatori, quando rimaniamo al livello più basso della nostra mente. Per questo dobbiamo stare attenti a evitare la polarizzazione del linguaggio, che semina divisione e odio fra le persone, perfino fra uomini e donne. La guerra fra i sessi è assurda come la guerra fra la nostra parte maschile e quella femminile. Il problema è la guerra dentro di noi, quando perdiamo di vista la nostra natura autentica e tiriamo fuori la bestia inconsapevole, sentendoci vittime o padroni, mentre potremmo contribuire a elevare la qualità delle relazioni umane cominciando da noi stessi.

Articolo pubblicato sul sito dell’editore Terranuova: https://www.terranuova.it/News/Crescita-interiore/La-guerra-dentro-noi-stessi-perche-il-patriarcato-non-e-una-spiegazione