Quaranta ore di lavoro o più alla settimana sono troppe per noi umani. Una ricerca del Melbourne Institute of Applied Economic and Social Research australiano, pubblicata nel 2016, ha rivelato che il numero ottimale di ore lavoro è 25 per settimana, il che equivale a tre giorni invece che 5, soprattutto se si hanno più di 40 anni. Quando si va oltre, le capacità cognitive calano drasticamente e subentrano fatica e stress. Gli studiosi hanno verificato la tenuta della memoria, delle capacità linguistiche, della concentrazione e della velocità di elaborare le informazioni. E hanno attestato che le funzioni cognitive restano alte solo fino a 25 ore, poi calano drasticamente.
Ma se un orario ridotto sembra utopia per la maggior parte di noi, è invece una realtà in Olanda, dove dal 2000 è in vigore una legge che permette ai lavoratori di ridurre le ore e chiedere il part time. La settimana a 4 giorni è diffusa e adottata dall’86 per cento delle donne che hanno figli e dal 12 per cento dei padri.
John Maynard Keynes aveva previsto che grazie alla tecnologia avremmo potuto lavorare di meno. Entro il 2030, sosteneva, le 15 ore settimanali sarebbero diventate la norma.
La tecnologia dovrebbe avere come effetto positivo una riduzione dell’orario di lavoro. Invece, assistiamo spesso alla cinesizzazione del lavoro, con un aumento spropositato di ore giornaliere e un prolungamento fino all’inverosimile della vita lavorativa. In una società nella quale i diritti di tutti e di ciascuno siano al centro, oltre al diritto al lavoro dovrebbe essere valorizzato il diritto al tempo libero.
Già Marx, con la sua classica analisi dell’alienazione dell’operaio nella società capitalistica, aveva messo in luce come la durata della giornata lavorativa contribuisse, insieme alla sua subordinazione alle esigenze produttive, a disumanizzare il lavoratore e a degradarlo a schiavo della macchina.
Per formarsi, per sviluppare il senso del bello, per partecipare alla vita civile, per interessarsi di ciò che trascende l’immediato e il particolare, per sviluppare la creatività, per vivere pienamente, insomma, occorrono due condizioni: essere liberi dall’impellenza del bisogno, e quindi avere diritto ad un lavoro dignitoso e adeguatamente remunerato, ed essere liberi di utilizzare il proprio tempo – naturalmente limitato – per fare ciò che si vuole e per realizzarsi come persona, come componente di una famiglia e come cittadino, parte attiva del corpo sociale.
Il tempo libero del lavoratore fu costantemente avversato durante la Rivoluzione industriale e nel corso dell’Ottocento, soprattutto in Europa, dove, in un contesto di marcata disuguaglianza sociale, si tendeva a considerarlo come tempo dedito all’ozio, ai vizi e alle attività sovversive. Per questo fu cura di governi e di classi dirigenti irregimentarlo e controllarlo il più possibile.
Ma questa visione paternalistica e reazionaria del tempo libero mal si concilia con la democrazia. Non per nulla la Costituzione americana contempla anche il diritto alla felicità.
Oggi sappiamo che grandi geni dell’umanità, come Charles Darwin, Henri Poincaré, Thomas Jefferson lavoravano 3 o 4 ore al giorno e anche meno. Lavorare poco è un vantaggio per la società e una risorsa per l’economia. Lo diceva perfino il padre del liberismo economico, Adam Smith: “L’uomo che lavora in maniera così moderata da riuscire a lavorare in maniera costante non solo preserva più a lungo la propria salute ma, nel corso di un anno, esegue la maggiore quantità di lavoro possibile”.
La libertà dalla schiavitù del lavoro come da quella del bisogno dovrebbe essere fra gli obiettivi di un progetto politico davvero democratico ed evoluto.
Sono docente liceale di Scienze umane, psicologa, Gestalt Counsellor, formatrice e mediatrice familiare; sono anche blogger e saggista.
Ho fondato Rebis, un gruppo di studio sul risveglio del femminile come via d’uscita dal neoliberismo (pagina FB dedicata: Rebis – Il risveglio del femminile per un popolo sovrano e consapevole).
Scrivo per Sovranità popolare (giornale e blog).