La scuola delle multinazionali

Se si legge il Piano Scuola 4.0 sul sito del Ministero dell’Istruzione, non può sfuggire il tono esaltato con il quale si promuovono i nuovi “ecosistemi di apprendimento”, ovvero gli ambienti scolastici “innovativi e digitali”, finanziati con il PNRR “per accelerare il processo di transizione digitale della scuola italiana in tutte le diverse dimensioni e allinearlo alle priorità dell’Unione europea”. Di qui il tripudio di novità entusiasmanti, quali “la connettività per l’accesso a tutti i servizi internet alla massima velocità disponibile”, gli obiettivi “di inclusione e abilitazione di competenze” (digitali), per trionfare infine con le “next generation classrooms”, gli “ambienti on line tramite piattaforme cloud di e-learning e ambienti immersivi in realtà virtuale”, l’”eduverso” e gli “ambienti di apprendimento onlife” (!). Tralasciamo per pietà il profluvio di incomprensibili neologismi in inglese che dovrebbero conferire al testo un’apparenza di innovazione pedagogica e veniamo ai fatti.

L’utilizzo del digitale nella didattica, specialmente prima dei 14 anni, è disastroso per lo sviluppo delle capacità cognitive, sociali, emotive e relazionali, per la salute psicofisica dei ragazzi, per il loro apprendimento a scuola. Lo dimostrano centinaia di studi condotti in tutto il mondo e riferiti con ampiezza dal neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer nei suoi ormai numerosi libri divulgativi, fra i quali Demenza digitale, Emergenza smartphone, Solitudine digitale. Lo attesta la VII Commissione Istruzione del Senato, che a giugno 2021 afferma all’unanimità che “non è esagerato dire che il digitale sta decerebrando le nuove generazioni” e che non è “niente di diverso dalla cocaina” per la dipendenza di cui è causa. Lo ribadisce l’UNESCO, che parla di “tragedia dell’ed-tech mondiale”. Lo confermano i dati OCSE-PISA, che mostrano un declino delle prestazioni scolastiche degli studenti a partire dal 2012. Uno studio condotto dall’Università di Helsinki mostra che la scuola finlandese, considerata la migliore in Europa, sta perdendo colpi e ne attribuisce la principale responsabilità all’abuso di digitale nella didattica. In Svezia si sta pensando di tornare a carta e penna e si guarda all’Italia come a un modello. L’OMS nelle sue Linee guida spiega che il tempo trascorso davanti allo schermo può danneggiare i bambini e indica correlazioni con sovrappeso, obesità, problemi di sviluppo motorio e cognitivo e di salute psico-sociale. Perfino i filantropi, gli amministratori delegati, gli ingegneri e in generali i tecnici delle aziende high-tech statunitensi proibiscono l’utilizzo degli strumenti digitali ai propri figli e li mandano nelle scuole steineriane, dove il digitale è assente, perché “i magnati della Silicon Valley conoscono bene i danni che possono provocare in tenera età i gadget tecnologici dal design persuasivo sviluppati con la collaborazione di psicologi infantili”, spiega Milena Gabanelli in un articolo per il Corriere della Sera TV.

Ma se tutti sanno tutto, perché le nostre scuole vengono bombardate dalla retorica della “transizione digitale”? Perché i bambini di pochi anni sono costretti a utilizzare gli strumenti digitali anche se i genitori non sono d’accordo? Perché dobbiamo consegnare dati ultrasensibili a imprese private senza adeguata regolamentazione tramite il registro elettronico e le piattaforme digitali? Perché dobbiamo assistere impotenti alla distruzione della mente e della salute di milioni di bambini e ragazzi?

In un articolo su Bill Gates apparso su Forbes, Peter Greene scrive: “Se i dati sono il nuovo petrolio, le scuole pubbliche sono il nuovo Texas”. La frase può essere intesa in più modi: la digitalizzazione dei dati permette a soggetti privati stranieri di accedere a ogni dettaglio della vita scolastica di milioni di studenti in tutto il mondo, per farne l’uso che ritengono opportuno a fini commerciali o di controllo.

Ma la scuola è il nuovo Texas anche perché le multinazionali del digitale e delle telecomunicazioni stanno ingoiando una bella fetta delle risorse già scarsissime della scuola pubblica per piazzare i propri prodotti digitali, destinati a veloce obsolescenza e a una rapida sostituzione, e per esercitare un controllo di fatto sulla didattica. Le scandalose misure pandemiche che hanno costretto alla DAD i nostri figli sono state una manna dal cielo per tutti quei soggetti sovranazionali – le aziende ed-tech, il World Economic Forum, la Commissione europea fra tutti – che hanno enormi interessi economici diretti o indiretti nel settore digitale e per i quali non è certo la qualità degli apprendimenti e dell’offerta educativa l’obiettivo delle politiche scolastiche. È il libero mercato, bellezza!

Infine, la scuola pubblica è il Texas in un ulteriore, sinistro significato: programmare i più piccoli all’obbedienza, drogarli con la dipendenza da Internet, privarli del pensiero critico, dell’empatia, della gioia di muoversi all’aria aperta e di mettersi alla prova nelle relazioni faccia a faccia è il sogno erotico di ogni dittatore. Chi non conosce la libertà e non sa pensare non sa nemmeno di essere schiavo. Sarà per questo che gli oligarchi planetari investono così tanto in tutto ciò che può minare lo sviluppo sano e naturale dei bambini, dai prodotti farmaceutici, ai dispositivi digitali, al cibo-spazzatura, ai modelli identitari “fluidi”, all’educazione sessuale precoce, finanziando con fiumi di milioni gli influencer sui social, le associazioni di insegnanti, di medici e di psicologi, le università, i media, le organizzazioni non profit e i centri di potere a ogni livello?

Una cosa è certa: dove i miliardari “filantropi” hanno messo le mani sulla scuola, con il pretesto di migliorarla e di “innovarla”, come il progetto Common Core finanziato dalla Bill & Melinda Gates Foundation negli USA, i risultati scolastici degli studenti sono peggiorati. Come scrive Melissa McKenzie in un articolo del 14 dicembre 2020 su The American Spectator, “in pratica, i bambini americani sono ora più grassi e più stupidi. Viene negato loro il tempo di gioco, sono pieni di energia repressa e di ansia e sono drogati con la medicina per l’ADHD per reprimerli. Odiano la scuola e la loro crescita è stentata”.

La scuola ludica e artificiale della gamification priva gli allievi delle esperienze corporee ed emotive fondamentali per crescere. Questa è la cruda realtà. L’esaltazione della didattica immersiva offerta da VR (realtà virtuale) e AR (realtà aumentata) è funzionale alla vendita di prodotti tecnologici e non alla crescita armoniosa dei ragazzi. È pura propaganda commerciale. La tragedia è che, attraverso questa presunta innovazione, si costringono subdolamente gli insegnanti a modificare la didattica nella direzione voluta dalle aziende private, dalla quale spesso provengono o con le quali hanno stretti rapporti pure i politici. Per questo viene imposta senza discussione. Non reggerebbe nessun serio confronto scientifico. E per questo chi prova ad avanzare dubbi viene subito bollato come troglodita. La retorica della fallacia ad personam è l’arma più facile da usare, quando sono in gioco i miliardi.

Vale la pena di ricordare quanto scriveva Aldous Huxley ne Il nuovo mondo: “Quando i membri di una società passano gran parte del loro tempo non all’erta, col cervello ben desto, qui e ora, o nel futuro immediato, ma altrove, nell’altro mondo dello sport e dei teleromanzi, della mitologia e della fantasia metafisica, allora resistere all’assedio di chi vuole manipolare e controllare la società sarà ben difficile. […] i dittatori di domani sapranno certamente unire a quelle tecniche il flusso continuo delle distrazioni, un elemento che già oggi, in Occidente, minaccia di far affogare in un oceano di fatuità la propaganda razionale, indispensabile per la conservazione della libertà individuale e la sopravvivenza delle istituzioni democratiche”.

I genitori farebbero bene a riflettere.

Articolo pubblicato su Sovranità popolare, n°1, maggio 2024